Non posso di certo sempre discettare sui massimi sistemi e anche io ho la necessità primordiale di avere leggerezza anche se poi mi perdo per strada e torno sempre sui massimi sistemi da me citati.
Nel mondo occidentale la vita è tarata solo sul profitto e sul lavoro e si è perso quel sentimento romantico di assaporare la vita nella sua semplicità che spesso è di facciata.
Parafrasando Massimo D’Azeglio il romanticismo è l’educazione al bello attraverso il sentimento.
Ora, se da una parte gli antichi cinici greci che avevano in Diogene di Alicarnasso il massimo cultore di un modo di vivere evitando le cose inutili, dall’altra i grandi mistici Sufi dell’Islam hanno sempre auspicato che per vivere bene bisognava eliminare il superfluo.
Missione impossibile in un mondo che va di fretta e dove si vive di apparenze.
Ma se si ha la forza e il coraggio di riflettere su cosa ci attende tra la vita e la morte cercando di riempire al meglio lo spazio intermedio tra questi due eventi, ci si accorge che forse è necessario anche un momento di riflessione per riscoprire i valori certi di una vita terrena che vale la pena di vivere.
Sarà forse che in questi giorni ho perso un caro e conosciutissimo amico e collega di 57 anni in modo inaspettato e – al di là del dolore mal digerito e che ancora si dovrà perfezionare con il tempo – ho riflettuto sulla mia data di scadenza cercando di vedere la vita con occhi rinnovati e pensando a lui che non c’è più nel dolore dignitoso dei stretti congiunti che hanno fatto loro il detto di Seneca che lieve è il dolore che parla. Il grande dolore è muto.
Ora, se Schopenhauer ebbe ad affermare che la vita è un pendolo che oscilla tra dolore e noia esaltando il suo lato auto distruttivo, ciò non significa che per certi aspetti non avesse ragione.
Rimane, quindi, il problema centrale di tarare la vita stessa al meglio senza tanti scombussolamenti perché dalla mattina alla sera possiamo non esserci più e nessuno ne tiene a mente.
In pratica vivere senza tante rotture di scatole, per non usare altro termine più volgare.
Allora come si fa?
Ognuno riempie la sua vita come meglio gli aggrada dando valore a cose che per altre persone posso essere vacue e viceversa, ma rimane indubbio che osservare il bello sia il minimo comun denominatore di tutti.
Come, ad esempio, il maggio nei nostri appennini e nelle nostre meravigliose campagne umbre.
Chi ha avuto modo e, contestualmente, la sventura di leggermi in questi rocamboleschi editoriali che mi hanno permesso di diventare giornalista pubblicista, si sarà accorto della mia passione di fuggire nel nostro appennino alla ricerca di prati, di visuali sconfinate e di pievi appena ho tempo.
Maggio ha un suo valore tutto particolare ed è il mese dedicato alla Madonna laddove, sino a poco tempo fa, accadeva che nelle maestà rurali che hanno in due cipressi posti a lato delle stesse le sentinelle silenti dell’ascesi, si poteva incorrere in gruppi di donne avanti con l’età – gli uomini sono un po’ più sfuggenti e quindi meno riflessivi – che sgranavano il santo rosario il cui nome deriva dal fatto che si offrivano le rose appena sbocciate alla Madonna stessa.
Il trionfo è nel verde e dei fiori di montagna e si ricominciano a vedere armenti di bovini e rari di ovini governati da cani maremmani e pastori lenti.
In quest’ultimo caso poi, brucando prati freschi e fiori, i casari affermano che i pecorini di maggio hanno un sapore diverso e sono più profumati.
Si rivedono le processioni del santo del luogo portato a spalla da qualche confraternita in un perfetto mix di culti quasi pagani attualizzati alla religione cristiana, ma tutti tesi alla salvaguardia del raccolto sperando che non arrivi la grandine che distrugga tutto al pari dei numerosissimi cinghiali e il pericolo delle pale eoliche.
Il tutto condito da preti d’oltre mare che si sono dovuti adeguare alla tradizioni pastorizie de noantri studiando la vita del santo omaggiato.
I profumi sono di terra bagnata, di erba medica e del risveglio da inverni che sono lunghi, ma ahimè meno nevosi della mia infanzia e su tutto gioca un ruolo importante la luce che cambia di luminosità e che culmina nel solstizio d’estate e l’acqua odorosa di San Giovanni.
In sostanza maggio segna la fine del tempo brutto e il tempo dell’attesa al raccolto.
Il mese della speranza.
Così accade che si vedano persone camminare calme e lenti lungo strade non asfaltate o sedute sugli orli dei prati e scrutando l’infinito riappropriandosi del tempo della riflessione e ritrovare la sintonia con Dio per ringraziarlo della vita che ci è concessa.
Perché è questo che serve per superare le difficoltà quotidiane: la riflessione sulla caducità della vita per ammirare il Creato, sperando di vedere il mio amico vagare ridente lungo i prati del nostro appennino per esaltare la madre terra a cui si è ricongiunto sorridente.
Maggio è una preghiera laica.