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Suzuki Hayabusa, il falco da oltre 300 orari

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Nel panorama motociclistico mondiale, pochi mezzi hanno raggiunto il grado di icona. Un’icona che, nella miglior tradizione di “squadra vincente non si cambia” è rimasta praticamente invariata. Stiamo parlando della leggenda di casa Suzuki: la Hayabusa. Mutuando il suo nome dal Falco Pellegrino, rapace che supera abitualmente i 300 chilometri orari in picchiata, l’Hayabusa nacque fin dal principio per essere l’emblema della velocità su due ruote. 312 km/h, potenze comprese tra i 180 e i 200 cavalli a seconda delle serie costruttive, ed una bruciante accelerazione in soli 3,3 secondi da 0 a 100 km/h; dal 1999 ad oggi l’Hayabusa ha regalato emozioni a chiunque abbia avuto il piacere anche solo di vederla sfilare in strada. Ed in effetti la moto, ed il suo design, non a caso non sono mai cambiati nell’arco di ben 26 anni di produzione. Mentre la concorrenza, soprattutto quella di casa nostra, spesse volte si è concentrata sulla ricercatezza del design in una continua rincorsa al “nuovo che cambia tutto”, in Suzuki devono avere semplicemente pensato che le forme ispirate a quelle del Falco Pellegrino erano le più idonee per ottimizzate per velocità e stabilità.

Pochi i dettagli che sono cambiati nell’arco di 26 anni e tre serie produttive. I più interessanti sono stati sicuramente i motori, e la questione della velocità massima sviluppabile su una moto stradale. Nel 1999 l’Hayabusa era dotata di un motore quadricilindrico raffreddato a liquido da 1298 cc, che le garantivano 180 cavalli di potenza massima e la spingevano fino a 312 km/h. Interessante il dettaglio di questa serie, forse la più amata di tutte, che mostrava il tachimetro con fondo scala da 350 km/h. Per gestire un tale potenza e velocità, l’Hayabusa disponeva di pneumatici da 120 70 R1 all’anteriore e da 190 50 r17 al posteriore e si affidava ad un impianto frenante costituito da un doppio disco da 320 mm all’anteriore e un disco singolo da 240mm al posteriore. Il forcellone era dotato di un’apposita capriata di rinforzo, con il mono ammortizzatore completamente regolabile.

La comparsa dell’Haybusa sollevò alla fine degli anni ’90 un vero e proprio caso. Il timore di una corsa alle prestazioni sulle motociclette da strada si diffuse nell’opinione pubblica. Per porvi rimedio le case giapponesi Suzuki, Honda, Kawasaki e Yamaha, alla fine dell’anno 2000 si impegnarono a limitare la velocità massima delle proprie motociclette di punta a “soli” 299 km/h con appositi limitatori elettronici. Del resto esisteva già il precedente delle case automobilistiche tedesche che già meno di un decennio prima si erano impegnate allo stesso modo e secondo gli stessi termini, con solo la differenza della velocità massima limitata a 250 km/h nel caso delle vetture. Tuttavia in entrambi i casi l’accordo per tranquillizzare la coscienza dell’opinione pubblica aveva più una valenza simbolica, dal momento che la corsa alle prestazione sarebbe stata destinata a continuare nei decenni successivi sia in campo automobilistico che motociclistico. L’effetto dell’accordo tra i costruttori nipponici si vide già partire dal 2001. Dal tachimetro della Hayabusa di seconda serie scomparve il fondo scala a 350 orari in favore di un più “rassicurante” 300 km/h. Trattandosi di limitatori elettronici e non meccanici, l’effetto fu che numerosi proprietari modificarono la mappatura dell’elettronica dell’Hayabusa.

Nel 2008 la quarta serie introdusse un leggero restyling della carenatura, ma soprattutto un nuovo e più potente motore da 1348 cc che erogava ben 197 cv a 9500 giri, con una coppia massima di 155 Nm. Per gestire l’elevata potenza, e contemporaneamente rendere l’Hayabusa una motocicletta più fruibile anche per il motociclista meno alla ricerca delle prestazioni esasperata, venne adottato un sistema a doppia farfalla di alimentazione. Una farfalla era gestita dal pilota tramite l’acceleratore, mentre la seconda era adesso gestita elettronicamente. Mediante un selettore era possibile impostare la mappatura più consona alle proprie preferenze. La prima mappatura dimezzava la potenza a “soli” 100 cavalli mediante esclusione quasi totale della farfalla gestita elettronicamente. La seconda tagliava la potenza in alto di pochi cavalli, ma lasciava inalterate le prestazioni ai bassi e medi regimi. La terza ovviamente prevedeva la piena potenza. I dischi freno anteriori da 320mm furono invece sostituiti da due dischi da 310mm, ma più spessi (5,5 mm in luogo dei 5mm originali) onde diminuire il rischio di surriscaldamento e vetrificazione dei freni. Mentre le forcelle anteriori vennero maggiorate ed irrigidite. L’ultima incarnazione del Falco di casa Suzuki ha fatto la sua comparsa nel 2021. La potenza è calata a 190 cavalli, mentre la coppia massima era ora disponibile a regimi più bassi, per favorire la guidabilità e anche per esigenze legate alle sempre più stringenti normative antinquinamento.

Ciò nonostante l’Hayabusa rimane a tutt’oggi una delle icone motociclistiche più famose, il cui nome è indissolubilmente legato all’idea stessa di velocità pura e senza compromessi ed è abbastanza chiaro che tale rimarrà anche negli anni a venire.

Tanti auguri a Baggio “Supermagic Arcano”

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Recentemente al teatro Sistina di Roma è andato in scena un grande spettacolo di magia con i migliori illusionisti, prestigiatori e trasformisti del mondo. Perché tutto questo ha a che fare con il divin codino?

Super, Magic ed Arcano, tre termini suggestivi di origine latina. Tre parole che richiamano alla mente la vita e la carriera del nostro calciatore più rappresentativo che oggi compie 58 anni. Super è ciò che sta sopra, che eccelle, che supera per qualità il resto. Magic (magicus), in senso figurato, è chi ottiene grazie al proprio carisma effetti prodigiosi e straordinari. Arcano (arcanus), letteralmente significa ciò che è riposto in un’arca. Mentre le prime due parole si riferiscono a ciò che va oltre, che fuoriesce dai canoni standard, la terza sembra rifugiarsi dentro qualcosa, distaccandosi dal conosciuto. Arcano, che non è sinonimo di segreto anche se in comune vi è il concetto discreto della separazione dall’ evidenza, ha un taglio iniziatico, carismatico, perché è inscindibile dall’occulto. Potremmo definire l’arcano il segreto supremo, il tesoro più prezioso contenuto nell’arca dell’esoterismo. Arca deriva da arcére, ovvero tenere lontano, proteggere ciò che deve giacere inaccessibile. La protezione funziona nella doppia valenza: è arcano perché deve essere protetto dal pubblico profano ma è anche il pubblico che deve esserne protetto. Ciò che è celato non è solo sacro, ma può risultare distruttivo e fatale se non si hanno gli strumenti per affrontarlo: è perciò sia brama di conoscenza, che esclusione da essa.

Invito alla danza, Giovanni Antonio Fasolo

Roberto è stato il calciatore nazional-popolare per eccellenza ma anche colui a cui erano riconosciute doti extra sia nel fisico (il fisioterapista Antonio Pagni parla della sua muscolatura come la migliore mai vista), che nella visione di gioco (una velocità di testa e di gambe unica), che nella capacità creativa di inventarsi idee fuori dal senso comune che andavano a destabilizzare le difese avversarie e ad ammaliare i fans. L’altalena tra l’infortunio (accidente esterno) e la voglia di non arrendersi (forza interna), l’apparente contraddizione tra sovraesposizione mediatica e riservatezza caratteriale avvicinava i reali interessati ma al contempo allontanava -dopo un po’- i semplici curiosi come succede artisticamente col “pathos della distanza”. Il gioco creativo che diventa ricercatezza del dettaglio, la corsa all’estasi che è ancora posa plastica, la potenza che non toglie nulla alla leggerezza, ricorda come impatto il quadro “Invito alla danza” di Giovanni Antonio Fasolo che ha dipinto coi suoi affreschi le pareti di Villa Caldogno, a due passi da casa Baggio. Se come scrive Christopher Morley “nel cuore di ogni uomo c’è un nervo segreto che risponde alle vibrazioni della bellezza”, il nostro divin codino è diventato allo stesso tempo cassa di risonanza e scrigno di quella bellezza continuamente straripante, regalandone a iosa a milioni di appassionati, che ne hanno recepito il senso arcano, seppur difficilmente con la sua stessa grazia e determinazione.

N. B. Mi sono dilettata coi significati dei termini perché proprio oggi ricorrono i 100 anni dell’Istituto della Enciclopedia Treccani: il 18 febbraio 1925 Giovanni Treccani, Giovanni Gentile e l’editore Calogero Tumminelli diedero inizio al loro ambizioso progetto che ancora oggi ci rende orgogliosi.

Fonti foto: ilmessaggero.it e wikipedia.org

“M. Il figlio del secolo”, ovvero il Fascismo da cinepattone

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Negli ultimi mesi si è parlato quasi esclusivamente di una serie tv: “M. Il figlio del secolo”. Si tratta dell’adattamento televisivo del primo romanzo della quadrilogia su Benito Mussolini di Antonio Scurati.

Della serie si è iniziato a parlare più per le trovate pubblicitarie che per il contenuto di questa. Alcuni pasdaran hanno da subito cominciato a gridare al ritorno al fascismo sin dal momento del lancio a reti quasi unificate del trailer della prima puntata, in cui si vedevano saluti romani, camicie nere e tante manganellate. Elementi che hanno spaventato, facendo temere un ritorno al Ventennio, nonostante alla fine venisse detto che la serie era tratta dal romanzo di Scurati, che certamente non è appartenente ai “Battaglioni M”.

Successivamente ci ha pensato Luca Marinelli, attore che interpreta Mussolini, sostenendo che si è sentito a disagio a interpretare il Duce in quanto viene da una famiglia antifascista, suscitando diverse critiche tanto da destra quanto da sinistra sul fatto che comunque i soldi li ha ricevuti e se era a disagio poteva comunque rifiutare il lavoro, che comunque è quello dell’attore, cioè impersonare, recitare, portare sulla scena sentimenti e movenze.

Al netto di queste polemiche, magistralmente create per invogliare la gente a guardare la serie, il prodotto è alquanto gradevole e, tenendo presente che si tratta dell’adattamento di un romanzo storico, quindi, non di un’opera di storia, si apprezza nel suo complesso. Ovviamente ci sono alcuni errori storici grossolani, uno su tutti il fatto che i fascisti già dal 1919 chiamano Mussolini “Duce”, cosa che nella realtà avviene più avanti. Interessante è lo sfondamento della quarta parete, con Mussolini che interagisce con lo spettatore, rendendolo partecipe di quello che avviene nella sua mente e che gli altri personaggi non colgono. C’è da dire, però, che questa tecnica è sì interessante, ma è ripetuta allo sfinimento, ogni tanto nel corso della puntata ci si chiede se Mussolini parli mai effettivamente con gli altri personaggi, perché farlo solo con il pubblico dopo un po’ risulta stucchevole.

L’ultima nota dolente riguarda le intenzioni del regista, ma anche dell’autore del libro. Rappresentano Mussolini e i suoi sodali come dei compagnoni, che passano molto tempo a bere e a frequentare le donne, quando non parlano di politica in modo molto maccheronico oppure non pestano o uccidono i socialisti. Piuttosto che un gruppo di feroci assassini, vengono rappresentati come dei buontemponi con i quali lo spettatore si trova anche in compagnia, gli stanno simpatici e ci uscirebbe tranquillamente la sera per una birra.

L’unico vero oppositore di Mussolini nella serie non è né Matteotti, la cui ricostruzione dell’omicidio è alquanto comica, invece che tragica, né Facta o Nitti, bensì Cesare Forni. Questi è l’unico che sfida apertamente Mussolini, lo minaccia e crea un partito che lo sfida alle elezioni e viene pestato dalla Ceka fascista in stazione a Milano. Tutto molto bello, se non fosse che Forni, sindacalista rivoluzionario e fascista della prima ora, entra in contrasto con Mussolini quando questi, in vista delle elezioni del 1924, vuole aprire le lista a liberali e socialisti pentiti e fermare i pestaggi, cosa che Forni, fascista duro e puro, disapprova.

In conclusione, la serie, come già detto, è abbastanza godibile, otto puntate da cinquanta minuti l’una. Scorre velocemente, si guarda spegnendo il cervello. La classica commedia all’italiana, con tanta volgarità e molto sesso.

Fine vita, una riflessione necessaria

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In questo giorni la Regione Toscana ha promulgato una legge regionale che permette il suicidio assistito e apriti cielo.

La Toscana, quando era Granducato, nel 1786 fu il primo Stato al mondo che eliminò la pena di morte e quindi si può affermare senza ombra di dubbio che tale regione ha sempre precorso i tempi.

E chiaramente c’è stata una levata di scudi tra i cattolici oltranzisti e il resto del popolo che vede in questa nuova legge un passo avanti verso la modernità.

Sul punto ho le mie idee che vi esterno anche se non ve ne frega nulla, ma almeno vi invito a riflettere.

Premetto che sono un credente e mio malgrado Cattolico Apostolico Romano e quindi, in linea astratta, dovrei essere contro questa legge considerata scellerata quando in realtà ha solo profili di incostituzionalità perché prima si deve adeguare la Costituzione all’articolo 2 che sancisce – tra l’altro e in buona sostanza – il diritto alla vita come inviolabile.

Ne consegue che prima si modifica la Costituzione e poi si mette mano alla questione.

Faccio un passo indietro.

Quando ero giovane, tra i 18 e i 25 anni e frequentavo assiduamente le organizzazioni cattoliche – non i neocatecumenali ben inteso che mi stanno sullo stomaco e ritenendoli la nuova Jihad Cristiana – ero contro l’aborto, contro la pena di morte e contro il suicidio assistito ritenendo che solo Nostro Signore potesse dare e togliere la vita.

Poi con il passare del tempo e affacciandomi sul mercato del lavoro che comporta inevitabilmente un confronto costante, ho iniziato ad avere i primi tentennamenti, ma non certo sulla pena di morte che rimane il top dell’inciviltà a prescindere.

Adesso sono a favore che esista la possibilità di ricorrere all’aborto e al suicidio assistito per svariati motivi che vi dico, ma basta che non si arrivi, con queste due scuse, all’eugenetica dei nazisti che già siamo sulla buona strada.

Sono sempre stato un fautore della netta distinzione tra Stato e Chiesa e dagli articoli che ho scritto su questo magazine si capisce che ho sempre tuonato contro la Santa Romana Chiesa quando entra a far politica cercando di influenzare l’elettorato su cui il popolo nulla osserva perché consiglia sempre candidati di questa sinistra neanche al caviale, ma alla porchetta.

Poi quando la Chiesa tuona contro aborto e suicidio assistito, gli stessi compagni rimangono indignati per questa interferenza della stessa nelle leggi dello Stato e facendo risultare il tutto come qualcosa di imbarazzante ed esilarante nello stesso tempo e il risultato si vede alle urne.

E invece, in quest’ultimo caso, la Chiesa fa la Chiesa, nulla da eccepire anche se a corrente alternata.

In uno Stato moderno le leggi devono essere tarate sulle libertà e per cui ben vengano le leggi sull’aborto e sul suicidio assistito o le unioni civili tra persone dello stesso sesso perché ogni persona deve avere il diritto di decidere il proprio destino senza che qualcuno ci metta bocca se non vìola la legge penale.

Se poi uno è un vero credente non deve abortire o non chiedere il suicidio assistito per coerenza evangelica, ma non può pretendere che chi non crede in Cristo si adegui a qualcosa per loro di fantasioso.

Si chiama rispetto civico che esula dalla Fede stessa, anzi.

Se una persona è credente deve comprendere necessariamente, in una continua applicazione della Misericordia, anche le esigenze degli altri anche se dovessero comportare iniziative che vengono considerate scellerate quando in realtà sono piene di dolore nel farle.

Decidere di abortire perché il nascituro ha qualche deficit o perché non si sa come mantenerlo, implica un bel dramma interiore soprattutto nella donna anche se poi si abortisce per svariati motivi anche contraccettivi (in quest’ultimo caso il nascituro te lo tieni perché ci sono mille modo di contraccezione).

Decidere di farsi da parte perché se ne hanno le scatole piene di soffrire in stato semi vegetativo o perché i familiari vedono sul medesimo letto un familiare immobilizzato da anni con la speranza che muoia, non è cattiveria o egoismo, ma una sofferta scelta di amore estrema.

Non credo che Englaro si sia alzato la mattina con il piede sbagliato e abbia combattuto per il fine vita della figlia per un capriccio, sua figlia non un’estranea, ma con la sofferenza di padre che decide – come deve essere – il bene della figlia stessa.

Ma d’altronde, inutile nascondercelo, il fine vita già esiste nei fatti concludenti di non utilizzare l’accanimento terapeutico farmacologico che consiste da una parte nel testamento biologico e dall’altra la sospensione delle cure per lasciar morire il paziente senza speranza.

Portate un anziano di età di poco superiore agli 80 anni e mettetelo nel reparto di Medicina Interna: esce con i piedi in avanti.

Io, per esempio, ho fatto il testamento biologico decidendo di farmi andar via qualora dovessi diventare un peso per i miei figli che, invece, devono vivere la loro vita e non starmi dietro per la tutela di una vita che Dio ha già deciso quando sono nato e chiamandolo destino.

Perché se si ha un minimo di buon senso in tutti noi c’è la paura di essere un peso per i nostri affetti stretti.

Ho amici sfiancati dal dover assistere i genitori anziani che sono in attesa della morte e passano la vita sfiorendo nello stare dietro a perenni malati terminali.

Dio ci ha donato il libero arbitrio e su quello si fa leva per santificare la vita stessa dal momento che, come diceva papa Ratzinger avanti con l’età e mal messo di salute, diceva che non si preparava ad una fine, ma ad un incontro.

E quindi Dio, che è misericordioso, non andrà a verificare se l’aborto o il suicidio assistito sia un peccato dato che, se anche lo fossero, ci perdonerebbe tutto.

È il suo compito e speriamo che capisca.

La magistratura e la separazione delle carriere

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Grande fermento sociale per l’ipotesi del governo Meloni di separare le carriere tra pm e giudicanti così da formare due Csm.

Sul punto l’articolo 107, comma 3 Costituzione, recita che “i magistrati si distinguono tra loro soltanto per la diversità delle funzioni”, ma si introduce il principio delle “distinte carriere dei magistrati giudicanti e requirenti”, la cui disciplina viene demandata alle norme sull’ordinamento giudiziario (articolo 2 del d.d.l., di modifica dell’articolo 102, comma 1 Costituzione).

Quindi a ben vedere non è ciò che blatera la sinistra in opposizione alla destra come attentato alla autonomia della magistratura, ma quanto previsto dalla Costituzione nata dopo la Resistenza con le parole diversità delle funzioni.

Quello che stupisce è che gli stessi magistrati tuonino contro questa riforma che riforma non è, ma soltanto l’applicazione della legge costituzionale che loro dovrebbero conoscere meglio di questo articolista.

Tale riforma su cui io non sono d’accordo per i motivi che spiegherò appresso, non va a minare – secondo me – la autonomia costituzionale della magistratura stessa come sancita dalla Costituzione e dire il contrario è folcloristico.

Il problema, infatti, è ben altro.

Due sono gli aspetti che si devono sottolineare, il ruolo del Csm (Consiglio superiore della magistratura) e l’Anm (Associazione nazionale magistrati) e vediamo il perché.

Il Csm è l’organismo di controllo dei magistrati su ogni cosa, anche dal punto di vista disciplinare che, invece, è spesso silente in relazione a comportamenti non proprio perfetti di magistrati sotto molteplici aspetti e che culminano in rarissime sanzioni che il più delle volte consistono nel solo spostare un magistrato da Torino ad Agrigento (un esempio) o affibbiargli la parola flessibile che significa tamponare momentaneamente un ruolo vacante in un determinato ufficio.

In pratica un tappabuchi dove il magistrato flessibile si ritrova da una parte all’altra di un circondario di Corte di appello di sei mesi in sei mesi per coprire falle organizzative da lui non create.

Sul punto la riforma Nordio prevede l’Alta corte disciplinare autonoma, ma composta da soli magistrati con il risultato che cambiando gli ordini degli addendi il risultato non cambia anche se si vuole fare apparire il contrario.

Ruolo centrale però è che paradossalmente l’Anm ha il controllo indiretto sul Csm citato, Anm che rappresenta i magistrati e avendo in seno ad essa varie correnti politiche.

Questo è il guaio perché se ci sono correnti politiche si capisce bene che viene meno l’imparzialità della magistratura che la butta in politica a motivo del quale viene etichettata di sinistra quando in realtà è solo autoreferenziale avendo tutti gli strumenti costituzionali che glielo permette.

E questo non viene capito dal Tribunale speciale di Facebook nell’eterno dramma della tipica tifoseria italiana dove si è accecati dalla ideologia politica su tutti i fronti.

Di fatto, anche qualora si arrivasse alla separazione delle carriere non cambierebbe nulla perché il primo passo che dovrebbe fare un governo è lo scioglimento dell’Anm che sta diventando un potere in contrapposizione allo Stato e quindi rasenta la sovversione ad opera di quei magistrati che la dovrebbero invece impedire.

Ma non oso immaginare cosa accadrebbe se il Governo Meloni decidesse lo scioglimento dell’Anm perché paradossalmente verrebbe etichettato come provvedimento fascista con tutte le conseguenze politiche e sociali ben intuibili.

E quindi rimarrà tutto come è.

Se invece lo scioglimento dell’Anm arrivasse da un governo di sinistra passerebbe come atto dovuto al pari della riforma dell’articolo18 dello Statuto dei Lavoratori (non un’ora di sciopero) o delle norme liberticide durante la pandemia Covid con relativa intonazione di Bella ciao quando sarebbe stato più pregnante Faccetta nera vista la privazione di libertà.

Per ovviare a questo stato di cose in considerazione che nelle grandi democrazie occidentali la separazione delle carriere è consolidata, si dovrebbe prevedere un controllo sulla magistratura inserendo gli avvocati (eletti con votazioni nazionali e non su designazione dei Consigli degli Ordini territoriali) e docenti di diritto con lo stesso criterio di elezioni nazionali e sempre formato da 15 componenti ma ripartiti in 5 magistrati, 5 avvocati e 5 professori universitari.

In tale modo si avrebbe un diverso polso della situazione, si svilirebbe il ruolo dell’Anm che fa il bello e il cattivo tempo nella magistratura e saremmo più contenti.

Ma sappiamo cosa è successo dopo la vergognosa vicenda di Palamara e cioè nulla di nulla, neanche un abbozzo di mea culpa della magistratura dopo che sono emerse le tresche poste in essere per accontentare il magistrato amico di una certa corrente e non per meriti professionali come invece dovrebbe essere.

E questo comporta che la stragrande parte dei magistrati, quelli che lavorano come muli che in udienza non si assentano per fare pipì e sono magistrati con la M maiuscola, se non hanno santi in paradiso (leggasi Anm), si ritrovano sballottati da una parte all’altra senza fare neanche carriera e rimanendo al palo iniziale, ma non iniziatico come i magistrati di prima nomina.

Avvilente per loro e per chi crede nella Giustizia suscitando in noi un moto esilarante la frase “la legge è uguale per tutti” quando non lo è neanche per i magistrati che non sono politicizzati dal correntismo dell’Anm.

Quindi una riforma farlocca che trova nella frase di Tomasi di Lampedusa il sunto di quanto posto in essere: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”.

Spero di avere torto.

Debora Caprioglio: “È il rapporto con il pubblico che dà la misura di ciò che vale un’artista”


L’attrice ci parla, con la lucente semplicità che l’ha sempre contraddistinta, dei suoi punti di forza e paure, ma soprattutto del grande amore per il teatro

Nei giorni scorsi abbiamo incontrato Debora Caprioglio al teatro Arcobaleno di Roma dove ha interpretato Bruna Lupoli, colei che per venticinque anni è stata la governante della cantante lirica più famosa al mondo, in uno spettacolo biografico dal titolo “Callas d’Incanto”. Dismessi i panni della vestale che custodisce i ricordi della Divina, ecco cosa ci ha raccontato…

Ha interpretato ed evocato due donne con una personalità fuori dal comune e dal destino tragico, quali Artemisia Gentileschi e Maria Callas. Cosa l’ha ispirata e affascinata di entrambe? Ci sono delle caratteristiche umane e/o professionali che ha in comune con le due leggende dell’arte e della lirica?

I due spettacoli sono scritti e diretti da Roberto D’Alessandro, con cui collaboro da tanto tempo. L’ultimo sulla Callas è un monologo che porto in tournée da 7-8 anni. Leggendo la sua storia personale mi sono commossa. Mi ha affascinato l’essere contemporaneamente una donna forte e fragile, la doppia valenza in bilico tra perfezionismo sul lavoro e amore distruttivo per Onassis. Della Gentileschi mi ha colpito la capacità di affrontare le ingiustizie (ndr, violenza, processo e tortura) e di perseverare sulla strada intrapresa, divenendo di fatto la prima donna ad essere ammessa alla prestigiosa Accademia delle arti del disegno di Firenze. Il trait d’union tra me e loro è sicuramente una grande forza di volontà.

Le è capitato di vivere storie tormentate come la Callas o è convinta che l’amore debba essere sinonimo di felicità?

“Sono convinta che l’amore muove il mondo ma è anche vero che non sempre è sinonimo di fortuna. Spesso un forte sentimento si accompagna a tante gioie ma reca altrettanti ferite. Il cuore comanda anche il corpo, perciò comprendo chi soffre il mal d’amore che è una malattia a tutti gli effetti”.

Recentemente è uscito al cinema “Nosferatu” di Robert Eggers. La sua carriera venne lanciata come comparsa non accreditata, grazie a Klaus Kinski, proprio con “Nosferatu a Venezia” diretto da Augusto Caminito nel 1988. L’anno successivo fu la protagonista in “La maschera del demonio” di Lamberto Bava. Lei come spettatrice ama il genere horror?

“Mi piace molto, ma essendo una fifona, non vedo mai i film dell’orrore da sola. Devo essere rigorosamente in compagnia. L’importante è che sia più sul versante del thriller psicologico che non sullo splatter con tanto sangue”.

Che ricordo ha di Tinto Brass che l’ha fatta conoscere al grande pubblico con “Paprika”?

“È un grande regista a cui sono grata per l’enorme popolarità che mi ha dato. Il film appena uscì (ndr, nel 1991) fu molto chiacchierato. Ci ha unito la nostra venezianità autentica e verace, il fatto che parliamo la stessa lingua”.

Lei è stata il sogno conturbante per milioni di persone. Si sente una donna erotica?

“Veramente no. Mi sento l’eterna ragazza del liceo. Mi riconosco la voglia di stupirmi ancora, l’essere perennemente sbarazzina, con un forte spirito vitale. Crescendo ho acquisito consapevolezza ma sono diventata anche più timorosa rispetto alle malattie. Da giovane invece ero incosciente, per esempio non avevo paura dell’aereo e non soffrivo di vertigini, mi buttavo maggiormente nelle situazioni”.

Però anche da ragazza aveva comunque paura dei film horror, giusto?

“Si quello sì” (ndr, ride).

Bruna Lupoli è rimasta fedele fino all’ultimo (anche dopo la morte) a Maria Callas. Lei ha amicizie storiche nel mondo dello spettacolo o preferisce coltivarle fuori dal suo settore?

“Le amicizie storiche sono quelle nate sui banchi di scuola. Se devo confidarmi scelgo le amiche del cuore che non svolgono il mio lavoro. Durante la tournée si creano dei legami ma poi finiscono lì, non c’è un seguito con una vera frequentazione”.

A quale ruolo è maggiormente affezionata e perché?

“Quello di Ghisola nel film ‘Con gli occhi chiusi’ di Francesca Archibugi (ndr, del 1994) principalmente per due motivi: ha coinciso con la mia svolta (ndr, fu un cambio di registro interpretando un personaggio molto intenso e drammatico) ed è il genere che prediligo. Adoro i lungometraggi coi costumi d’epoca. A teatro invece ho amato, da buona veneziana, soprattutto i ruoli goldoniani”.

Preferisce il cinema, la tv o il teatro? Sul lavoro che differenze ha notato tra Italia e estero?

“Senza dubbio il teatro. Dal 1997 ho portato in scena una cinquantina di spettacoli. Mentre il cinema e la tv si basano su dei freddi calcoli numerici, il teatro è la vera palestra in cui il rapporto col pubblico dà la misura di ciò che vale un’artista. Le persone in sala esercitano una propria sovranità. Pur non avendo avuto tante esperienze fuori i confini nazionali posso dire che l’Italia è la culla del cinema e spero ritorni in auge come negli anni ‘60”.

Ha più volte affermato che il teatro per lei è una droga. Prossimamente la vedremo, quindi, ancora sul palcoscenico?

“Sì mi vedrete in ‘Plaza Suite’ con Corrado Tedeschi. A marzo saremo al Parioli Costanzo di Roma, ad aprile al teatro Dehon di Bologna e così via in giro per l’Italia. Interpretiamo tre coppie in crisi in tre diverse situazioni ma in un’unica suite, la stanza dell’hotel Plaza di New York, che dà il titolo alla pièce”.


Fonti foto: quartaparete e imdb

Napoli Film Audiovisual Festival: un progetto dedicato a cortometraggi e documentari

Dal 10 al 13 marzo 2025 a Napoli si realizzerà la prima edizione del Napoli Film and Audiovisual Festival (NA.F.A.FE’), presso il Cinema America Hall (via T. Angelini, Vomero). Dal 31 gennaio è possibile iscrivere le opere al concorso indetto per i cortometraggi. L’evento, promosso e finanziato dal Comune di Napoli nell’ambito del progetto Cohousing Cinema Napoli, è organizzato da Camella Srls.

Con il NA.F.A.FE’ Napoli conferma il suo ruolo di crocevia culturale e artistico, offrendo un palcoscenico privilegiato per le produzioni cinematografiche e dei nuovi talenti. NA.F.A.FE’ nasce per offrire una piattaforma di visibilità alle produzioni cinematografiche locali e internazionali, con un focus sui cortometraggi e documentari brevi. Al centro del festival c’è il legame con Napoli, che emergerà nelle opere selezionate attraverso le ambientazioni, le tematiche o la partecipazione di talenti partenopei valorizzando le produzioni “dal basso”.

Il festival gode della partnership con la Run Film e si fregia della Direzione artistica di Raffaele Riccio, già Direttore operativo del Napoli Teatro festival dal 2011 al 2016, dedicatosi poi a progetti internazionali sotto la guida di Franco Dragone (Cirque du soleil), prosegue tutt’oggi le sue attività all’estero.

L’elemento distintivo del festival sarà il coinvolgimento delle scuole: gli studenti non solo assisteranno alle proiezioni, ma valuteranno anche i film in concorso e assegneranno premi speciali. L’obiettivo è avvicinare i giovani al cinema, stimolando alla riflessione sulle tematiche sociali affrontate nei corti e mettere in luce storie legate a inclusione, politiche urbane ed emarginazione, ponendo l’accento su contesti sociali e dinamiche cittadine.

Grazie al primo bando pubblico per il cinema e per l’audiovisivo del Comune di Napoli, prosegue con NA.F.A.FE’ l’impegno dell’Amministrazione nel valorizzare il comparto locale e nel contribuire allo sviluppo culturale e professionale delle nuove generazioni. Diffondere la cultura cinematografica tra i più giovani rappresenta uno strumento di crescita per la comunità del futuro che intendiamo realizzare. Si parte dal mondo della scuola, luogo primario di costruzione e di divulgazione della conoscenza, per coltivare prospettive e opportunità”, dichiara Sergio Locoratolo, coordinatore delle politiche culturali del Comune di Napoli.

“In linea con gli obiettivi del progetto Cohousing Cinema Napoli, il programma di NA.F.A.FE’aggiunge Ferdinando Tozzi, delegato del Sindaco per l’industria musicale e l’audiovisivo – mira a promuovere la creatività e l’espressione artistica degli studenti e prevede occasioni di formazione e masterclass, in un’ottica di crescita e di sviluppo continuo del tessuto culturale della città. È importante instillare nelle nuove generazioni la consapevolezza che il mondo del cinema, e più in generale della cultura, costituisce una vera opportunità professionale e uno strumento concreto di messa in atto dei propri talenti”.

Il programma prevede tre giorni di proiezioni dei cortometraggi in concorso, seguiti da lectio magistralis tenute da registi, addetti ai lavori e attori che parteciperanno al programma che verrà svelato nelle prossime settimane, offrendo al pubblico un’occasione unica per esplorare il dietro le quinte del cinema. Dal 31 gennaio 2025, fino a mezzanotte del 20 febbraio, è possibile partecipare alla “call per i cortometraggi e documentari brevi”, attraverso il link https://filmfreeway.com/NAFAFE2025

Giovani registi e case di produzione potranno iscrivere le loro opere, gratuitamente, al concorso, purché in linea con i temi del festival. Oltre ai premi assegnati da una giuria tecnica di esperti, che verrà annunciata nelle prossime settimane, il pubblico di giovani spettatori decreterà il Miglior Corto.Il festival si concluderà con una proiezione speciale fuori concorso, alla presenza di ospiti d’eccezione legati a Napoli e al mondo del cinema. 

Napoli rappresenta un laboratorio unico per i giovani, dove tradizione e innovazione si incontrano in un territorio ricco di stimoli artistici e culturali – dichiara il direttore artistico Raffaele Riccio. Con il progetto NA.F.A.FE’. attraverso i Corti selezionati esploriamo tematiche profonde e attuali, trasformandole in un processo creativo ed educativo. È un omaggio alla capacità di questa città di generare bellezza e raccontare storie universali attraverso il talento delle nuove generazioni.”

Enza Guadagni protagonista di un lungometraggio: la sua nuova avventura

Nel 2025 uscirà un lungometraggio che vedrà come protagonista la stupenda l’attrice e ballerina napoletana Enza Guadagni. L’opera, che sarà distribuita su Prime, si intitola “Il privè dei potenti” e l’artista partenopea interpreterà il ruolo di Beatrice, una stupenda ballerina di lap dance che dovrà fare i conti con il contesto sociale in cui vive affrontando diverse sfide personali.

“La vera essenza del film – spiega Enza Guadagni – si concentra sulle dinamiche di potere, sul dolore e sulla ricerca di giustizia, elementi questi, che vanno ben oltre l’apparenza superficiale. L’opportunità di esplorare le sfide interiori di Beatrice e il contesto sociale in cui si muove offrirà spunti di riflessione preziosi per il pubblico”.

Gli elementi che accompagnano l’emergente attrice in questa sua nuova avventura sono l’impegno e la dedizione con un copione che le assorbe tutte le energie: “Non vedo l’ora di provare a trasmettere queste sfumature e a far emergere la vera natura della sua narrazione”, fa sapere, infine, Guadagni.

L’attrice ventiseienne, originaria di Pomigliano, a novembre dell’anno scorso ha presenziato anche alla prima del docufilm “Titanus 1904”, incantando i presenti del Cinema Filangieri con un bellissimo abito rosso.

Esorcizzare la morte e la paura della tomba

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Mi accorgo che spesso i miei editoriali sono più letti quando parlo di trascendenza o spirito e un pò meno di analisi di attualità.
E accade che spesso parlo di trascendenza perché, se si va a vedere le scarne notizie che appaiono sui quotidiani anche online, le notizie stesse sono sempre uguali e, quindi, alla fine ci si annoia.

In più, per una tempesta che ho perennemente dentro, mi è più congeniale parlare di ciò che porta alla ricerca di elevazione dell’anima che si sostanzia nel voler risposte adeguate che non arrivano se non con la morte.

In questo due anni di articoli vi sarete accorti di un sostanziale turbamento che mi scuote come quasi tutti, ma con la sola differenza che io ho l’opportunità di scriverlo su questo bel magazine con la malevola provocazione di suscitare in voi la riflessione, per farvi star male penserete.

In realtà un editoriale, per come strutturata la professione giornalistica, è sempre collegato ad un commento morale o politico di un fatto posto a fondamento di un articolo, argomento che può essere il più disparato che va da Fedez a Malena alle elezioni politiche regionali.
Nel caso di oggi è la mia visita ai miei cari in un cimitero dell’alta Toscana mentre ritornavo dalla Liguria per lavoro.
Un fratello, mio padre, mia madre sono colà sepolti da troppi anni.

Persi tutti in mia giovane età e, potete immaginare, il mio percorso doloroso, ma invitto alla vera depressione pur avendo avuto – e ho tutt’ora – alcuni momenti di debacle umorale che riaffiora quando muore una persona a me cara.

Ne consegue che a tutti noi questa pesantezza della morte, per un verso o per un altro, ci accompagna per tutta l’esistenza.
Sigmund Freud affermava che “esistono due modi per essere felici in questa vita, uno è di diventare un idiota e l’altro è di esserlo”.
Ora, siccome ritengo che non tutti siano idioti salvo rare eccezioni, penso che pochi siano felici.

Se da una parte i grandi maestri Sufi dell’Islam affermavano che per avere una buona vita bisognava eliminare le cose superflue, dall’altra mi accorgo che l’intelletto umano mal digerisce il concetto di morte e si ha tutti paura perché si rimane incompiuti in eterno.

Quindi ci si confronta con la morte sempre e mentre osservavo i miei cari ho realizzato che si ha paura di essa perché si ha paura di essere chiusi in una cassa e seppelliti a volte sotto terra e a volte messi nei loculi e non si può fuggire.

Prigionieri in eterno e poi rimossi per fare spazio ad altri prigionieri.

Il concetto di tomba, quindi, diventa un totem devozionale di chi rimane in vita per portare due fiori o andare a confrontarsi con chi crediamo che ci veda e osservi da sotto quando in realtà lo fa dall’alto tra le nuvole.

Perché il problema è demonizzare la morte e i più non ci riescono salvo i credenti nel buddismo tibetano che credono sostanzialmente nella reincarnazione.

Beati loro.

Noi cristiani – che non abbiamo le 72 vergini che ci aspettano in Paradiso come nell’Islam – abbiamo, invece, forti remore perché ci domandiamo dove alloggeremo quando risorgeremo se il corpo non c’è più anche se è indubbio che il concetto di resurrezione è – dal punto di vista teologico se non ricordo male – squisitamente dello spirito (in realtà la resurrezione della carne è una dottrina escatologica della Chiesa Cattolica e avverrà con il Giudizio Universale, ndr).

Partendo, quindi, da questo assunto e della forza dello spirito ,si svilisce il concetto di morte e di seppellimento perché diventa solo un fatto brutalmente formale, ma pieno di dolore per chi rimane.

Questo perché se da una parte lo spirito non morirà in eterno, dall’altra lo stesso rimarrà nel cuore di chi è custode degli affetti del morto.
È la memoria della persona amata che sfocia in malinconia.

E in alcuni, che hanno perso un figlio, la malinconia si tramuta in un ergastolo del dolore.

Per ovviare a questa serie di paure ben motivate la cremazione diventa -paradossalmente – l’esorcizzazione della morte perché si diventa cenere su indicazione evangelica che polvere siamo e polvere torneremo (Genesi 3,19).

E poi accolte in casa quale sigillo di una presenza continua di un affetto che veglia su di noi.

E non si avrebbe più paura dell’oscurità e della terra che divora il corpo che va in decomposizione.

Perché anche questa è un’altra macabra paura di cui siamo ben amaramente coscienti.

Con la cremazione si torna liberi nel respiro di Dio.

Ma d’altronde non abbiamo la stessa elevazione spirituale di papa Ratzinger che ebbe a dire “Non mi preparo per una fine, ma per un incontro” ma più sommessamente pensiamo che non è giusto morire, soprattutto se giovani anche in considerazione che si ha paura che di là non ci sia nulla, ma solo la terra che opprime il nostro corpo.

Meglio, quindi, essere polvere.

Il fascismo degli antifascisti

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Di questi giorni la notizia apparsa sui soliti canali che la sindaca di Perugia ha sentenziato che non cederà in uso i locali del Comune da lei comandato a associazioni che si rifanno al fascismo o simili.

Sul punto nulla di nuovo per una giunta paurosamente spostata su posizioni di una sinistra accesa che ancora deve dimostrare se farla vincere è stato un bene o un male per la città nei fatti concludenti anche se, inutile negarlo, solo per il fatto che è una giunta di sinistra si perdonano anche gli svarioni programmatici e politici che sono miseramente emersi e su cui poi tutti stanno glissando.

Perugia è sempre stata una città difficile e chiusa nei propri circoli per lo più massonici, ma non in riferimento alla massoneria illuminata dell’800 del secolo scorso dove gli adepti erano sostanzialmente dei filantropi, salvo rare eccezioni plutocratiche, ma quella di oggi dove gli spunti si sono invertiti.

Cioè una massoneria plutocratica e chiusa e i veri illuminati sono pochini se non quasi assenti.

E vive in un mondo tutto suo laddove si capta che ha poco a cuore i problemi della città se non nella misura in cui le iniziative prese andrebbero a minare la massoneria stessa.

Ne consegue, secondo me, che la sindaca perugina può fare il bello e il cattivo tempo in città perché della massoneria poco interessa avendo a cuore il partito, non la città e facendo anche con proclami anacronistici e contro producenti – se non addirittura folcloristici – se si osserva al meglio la parola Democratico che diventa il suffisso dell’altra parola Partito che di democratico non ha nulla.

Perché nei fatti concludenti se si impedisce a tutti i cittadini di manifestare le proprie idee come sancito dalla Costituzione nata sulle ceneri delle Resistenza, si capisce che la parola in bocca a questi di sinistra che impediscono di manifestare anche a quelli delle destra secondo lei estrema, diventa un ossimoro.

Con buona pace anche di Pier Paolo Pasolini che si rivolterebbe nella tomba.

Se fascismo quindi è prevaricazione e impossibilità di legge di impedire di esprimere le proprie opinioni, significa che c’è un fascismo di sinistra che sta dilagando nel nostro paese perché ancora non ha digerito che al capo del governo c’è la Meloni considerata fascista per eccellenza visto il suo passato e che fascista oggi non è perché atlantista e europeista incarnando il Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli più che la Carta del Carnaro di D’Annunzio.

Ne consegue l’orrore dei compagni di vedere le manifestazioni in Roma per la ricorrenza di Acca Laurentia in cui furono uccisi tre ragazzetti missini, in cui si radunano un migliaio di squadristi che dicono presente, facendo il braccio teso e vedendoli come un grave pericolo per la democrazia che la sinistra stessa calpesta.

Ora se esistesse questo fascismo con la conseguenza che l’antifascismo rimane l’unico e ultimo collante di una sinistra che non ha più programmi e non propone più battaglie per la lotta alla occupazione e al salario, la sinistra non potrebbe neanche parlare e sarebbero tutti i galera o silenziati (stile Matteotti, i fratelli Rosselli, Gramsci) o mandati al confino con il risultato esilarante che quanto posto in essere dai compagni diventa vero fascismo l’impedire ad altri di manifestare il proprio pensiero.

E questo l’ho vissuto sulla mia pelle laddove non essendo di sinistra automaticamente sono fascista e quindi non degno di confronto pur essendo stato nell’orbita delle Acli e Fuci (associazioni di ispirazione cattolica).

Ma rimane la sgradevole sensazione che ogni volta che uno di sinistra fa proclami liberticidi , anche il più mite si arrabbia e per reazione vota questa pseudo destra atlantista e plutocratica e anche essa un po’ massona.

I più dimenticano la legge Scelba che sanzionava chiunque si rifaceva al fascismo, ma è un paradosso e spiego il perché.

Al di là del fatto che il Fascismo è stato consegnato alla Storia e se ha ancora una parvenza di esistere è perché ci sono gli antifascisti che lo alimentano perché non ha programmi, è indubbio che se fascismo è prevaricazione, impedire o azzittire chi la pensi diversamente, significa che la legge citata dovrebbe essere applicata anche – se non soprattutto – a quelli di sinistra, Ssndaco di Perugia in testa.

E quindi la parola Democratico suscita il sorriso in chi nella democrazia crede veramente senza avere etichette politiche perché sguazza nella manifestazione del pensiero libero anche se non condivisibile perché la Costituzione (la migliore del mondo) ce lo permette, ma che viene calpestata con una disinvoltura drammatica (la faccenda pandemia per intenderci).

Le prime avvisaglie di questo fascismo di sinistra si è avuto, infatti, con la recente pandemia Covid che ha diviso ancor di più la società con una sinistra autodefinitasi partigiana che godeva nel vedere la compressione delle libertà dei cittadini e prendendo tutti in giro cantando “Bella Ciao” come canto sigillante che era nel giusto quando invece i capi dovevano andare in galera perché fascisti appiattiti su Big Pharma.

E facendo perdere il dolce lume, come diceva Cavalcanti nel canto X dell’Inferno della Divina Commedia ai più che chiudevano gli occhi avanti a tanto orrore.

Ennio Flaiano diceva – come ho scritto più volte – una frase che è stata attribuita a lui ed invece era del suo amico Mino Maccari che “i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti”.

Vivesse oggi si sbellicherebbe dalle risate scuotendo la testa.

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