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Cracco, trattorie e cibo da strada

Non sono un esperto di cucina e visione antropologica della stessa e quindi scrivere di ristorazione diventa una atto interiore di fanatismo e di emulazione di cui mi scuso, ma è una esigenza imprescindibile da umbro appenninico che dice la sua su ogni cosa manco stessi su Facebook.

La letteratura sulla ristorazione e sul cibo è varia e va dalle grandi guide (alcune prezzolate) che sponsorizzano un determinato locale, ai manuali della cucina tradizionale, a chi descrive il pranzo/cena e il bere bene come liturgia laica.

Anche la TV si è adeguata a questa crescita di interesse verso la cucina laddove gli italiani medi sono convinti di avere il rimedio per tutte le stagioni nel cuocere una carbonara come Dio comanda che rimane un piatto difficilissimo al pari di un uovo al tegamino.

È l’eterna presunzione di noi italiani che pensiamo di fare tutto e meglio di altri italiani che se ne sbattono bellamente se nella carbonara ci va il guanciale o la pancetta.

Mi aspetto anche che da un momento all’altro ci siano futuri programmi televisivi sui potenziali 60.000.000 milioni di poeti italiani quando in realtà siamo uno dei popoli europei che legge meno di tutti al punto che ritiene che Charles Bukosvki sia un cantante russo morto di cirrosi epatica perché si beveva il mondo.

O più semplicemente saccheggiano sui social la frase ad effetto per irretire la deficiente di turno che pensa di avere a che fare con un uomo sensibile che si squaglia invece avanti a due poderose tette e avendo raggiunto il maldestro obiettivo di irretirla.

Nei giorni scorsi è emerso che il locale di Carlo Cracco, in Galleria Vittorio Emanuele III in Milano, ha accumulato debiti per oltre 4,5 milioni di euro e ciò ha suscitato il godimento degli antagonisti culinari che hanno come ingrediente principale l’auspicato insuccesso di chi ha visibilità televisiva.

Cracco, da quel che mi hanno spiegato gli addetti ai lavori, viene dalla gavetta e ha fatto tutto quel percorso nella ristorazione che va dal lavapiatti ad essere chef stellato, non stallato (nel senso di stalla) e che quindi sa al meglio come affrontare un piatto.

Per carattere in primo luogo e per soldi da spendere in seconda battuta, il tipo di ristorazione di Cracco non è nelle mie corde dove seppur vero che le atomiche (nel senso di piccole) porzioni di cibo sono presuntivamente eccellenti, dall’altra conta anche l’impiattamento del prodotto finale in servizi da tavola di sei metri di diametro che accentuano la solitudine cosmica e visiva del cibo e provocando anche una tristezza infinita tra gli utenti che camperebbero di tagliatelle tirate a mano, anche se accanto c’è sempre la solita emulsione di che cosa non si è mai capito.

Ma si è stati da Cracco e lo si è postato su Facebook.

In realtà la cucina italiana merita più rispetto anche nelle sue svariate sfaccettature.

Non esiste per me una cucina regionale, ma una cucina che si va a sovrapporre ai dialetti di una determinata regione.

Per esempio: una salsiccia prodotta ad Assisi è diversa da una prodotta nella fascia che va da Foligno a Spoleto e per non parlare della Valnerina, luogo – sul punto – mistico per eccellenza.

I ristoratori di un certo livello si sono imparaculiti e trattano i conterranei come se fossero eterni turisti con particolare attenzione alla presentazione del prodotto che si offre in pasto, accompagnato con le solite frasi della stagionalità dei prodotti ed esaltando qualche produttore di insaccati come se fosse il nuovo Messia del salame lardellato.

Se poi si va sulla scelta dei vini, tutti sommelier, si entra in un girone dantesco ad hoc: quello dei coglioni.

Per ritrovare il volano del godimento del palato si deve puntare alla vecchia ristorazione con particolare predilezione per le trattorie che hanno 3 antipasti, 3 primi, 3 secondi e via dicendo dove il servizio è gentile, ma le posate non ve le cambiano – tra un piatto e un altro – neanche se li minacciate con la pistola.

Ma sono loro le autentiche depositarie di un mondo che si vorrebbe far scomparire in funzione di un marketing del fegato spappolato da vini dai costi eccessivi rispetto a quello tradizionale sfuso della casa che – al confronto – il Tavernello è un Chianti riserva imperiale.

Ma dietro queste trattorie c’è sempre il lavoro entusiasta di vecchie massaie che hanno le mani nodose da fabbro a furia di manovrare impasti e rilegature dell’arrosto morto.

Trattorie quasi sempre a conduzione familiare che hanno cementato – comunque tra una bestemmia e l’altra in cucina – la dicotomia azienda/famiglia.

Ma ci si sente a casa, non tanto per le bestemmie, quanto per i sapori laddove l’italiano medio ricerca sempre l’imitazione della cucina della propria madre in considerazione che più si avvicina ad essa e più si dice che si è mangiato meglio.

Perché la cucina è memoria, ricordo e tradizione.

E non per nulla, quando le trattorie – lasciate ai figli non illuminati – iniziano ad aggiungere emulsioni anziché aceto di vino, cominciano la parabola verso l’oblio finanziario e vanificando il sacrificio di una vita di altri.

Perché la modernità alla Cracco è la tomba della cucina almeno per me che ho gusti semplici che cerca – al massimo – tagliatelle ai rigagli di pollo fatte come se non esistesse un futuro del palato.

Su tutto il cibo da strada che ha nei furgoni con la porchetta il simbolo di un nuovo rinascimento che si basa sulla quantità di finocchietto selvatico e di pepe e suscitando quella pacificazione interiore che sfocia poi in un bicchiere di bicarbonato per digerire il tutto con rutto finale di utenti maleducati.

Gli chef stellati sono quindi l’emblema di una società dell’apparire a scapito dell’essere, tra sostanza e spirito, tra aceto balsamico e aceto normale e destinati – purtroppo perché sempre di lavoro altrui si tratta – a andare verso il nulla economico per due ordini di fattori: l’italiano medio quando mangia si deve alzare satollo e non con i morsi della fame e in secondo luogo è leggermente stufo di pagare 30 euro una dadolata di pomodori pachini in letto di pane e olio extra vergine di oliva e erbe aromatiche che in trattoria viene chiamata semplicemente per quello che è: bruschetta al pomodoro e basilico dal costo di 5 euro.

Non per nulla, quando noantri mortali del gusto, troviamo trattorie non imbastardite dal moderno che avanza e che affastellano le nostre colline, ci sentiamo come novelli conquistadores che hanno trovato l’ El Dorado.

Aveva ragione Federico Fellini: la vita è una combinazione di pasta e magia.

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