Intervista all’antropologo e storico Mario Polia
Mario Polia, professore di antropologia alla pontificia università Gregoriana di Roma e direttore del museo antropologico di Leonessa (Rieti), è uno scrittore prolifico di testi della tradizione primordiale. I suoi studi comparativi, che ricalcano quelli effettuati nel secondo dopoguerra da Eliade, Coomaraswamy, Schuon, sono un esempio di chiarezza espositiva di una cultura profonda e non intellettualistica. I suoi studi sulle religioni dei popoli precolombiani restano ad oggi tra i più importanti effettuati da un antropologo italiano.
Nei suoi studi si è occupato di diverse tradizioni, in primis, quella dei popoli amerindi. Cosa ricorda della sua esperienza sulle Ande?
“Nei paesi andini, una volta che quella gente ha intuito la mia affidabilità, sono stato accolto in maniera premurosa e disponibile. Ho vissuto per più di trent’anni sulle Ande peruviane e sono riuscito ad avere un contatto con alcuni sciamani della vecchia scuola rifugiatesi in una piccola parte del Perù. Questi maestri, di cui la gran parte di loro è morta, appartengono ad un lignaggio pre Inca e il loro sapere è riservato a pochissimi. Attualmente, purtroppo, c’è stata una contaminazione di stampo new age che ha annacquato parte di queste antiche conoscenze: dimostrazione, questa, che i segni della decadenza dei tempi non hanno una specifica connotazione geografica ma sono onnipervasivi”.
Interessante in tal senso è stato il suo studio sulle civiltà preincaiche. C’erano dei punti di connessione tra quelle civiltà e quelle dell’Europa arcaica?
“Queste connessioni non sono presenti in maniera manifesta. Certo se vogliamo farle risalire alle migrazioni dei popoli euroasiatici, che sono avvenute al tempo dell’ultima glaciazione tramite lo stretto di Bering, il discorso cambia. Si nota infatti una similitudine da un punto di vista della cosmogonia, della visione del mondo in generale, della medicina, tra le popolazioni mongoliche di quel tempo con quelle andine. Interessante notare anche, come sottolineo nel libro ‘Le tradizioni religiose amerinde’ che questi popoli andini (ed amerindi in generale) ad un certo punto della loro storia avessero un presentimento di una fine del mondo, di un naufragio finale, molto affine a quello dei popoli scandinavi: basti pensare al concetto di Ragnarok nella mitologia norrena”.
Cosa rappresenta per lei la romanità?
“La romanità rappresenta una parte notevole delle radici dell’Europa. Roma si distinse da tutte le altre civiltà antiche per la sua innata capacità di assimilare le popolazioni sconfitte e non quella di imporre coercitivamente il suo dominio dall’alto. Il Cristianesimo, checché se ne dica, nella sua radicale visione di non sostenere la natura divina dell’imperatore, rappresentò un continuum con la Tradizione degli avi e non una negazione. Difatti dopo Numa Pompilio, per evitare un eccessivo accentramento del potere in mano ad unica persona, il reggente non fu più identificato con un Dio. Lo stesso Ottaviano Augusto, come testimonia il testamento delle vestali, non voleva assolutamente essere divinizzato né in vita né postumamente. Fu un caso sfortunato quello che vide i cristiani dei primi secoli perseguitati a causa della loro ferma e decisa volontà di non riconoscere la divinità degli imperatori del tempo. Difatti è noto che alcuni degli imperatori romani avevano subito una marcata influenza dai teocrati orientali, abituati ad avere sudditi che li riconoscevano come dei in terra”.
Ha scritto anche delle opere sul celeberrimo scrittore anglosassone, J. R. R. Tolkien. Che messaggio ha voluto lasciare ai posteri l’autore de “Il Signore degli anelli”?
“Tolkien è riuscito a distillare in un linguaggio fruibile all’attuale umanità quello che i grandi autori tradizionali del passato facevano filtrare tramite la descrizione del mito. Lui rappresenta una sorta di Omero moderno, che è riuscito nella straordinaria impresa di creare un mondo ed una lingua ex novo. Nei suoi libri principali ‘Il Signore degli anelli’ e ‘Lo Hobbit’, seguendo il filone di alcune opere cavalleresche medioevali, cerca di rappresentare l’eterna lotta tra le forze della luce e quelle delle tenebre dove le prime, dopo un’ardua e dura guerra, trionfano sfociando in una palingenesi del cosmo”.
In periodi oscuri come questo che valore ha ancora la potenza del mito?
“Il mito di per sé, sia a livello simbolico che letterale, ha una funzione pedagogica. Esso dispiega totalmente la sua potenza soltanto quando, smesso di leggerlo in una maniera romantica, si studia con la ferma consapevolezza di concretizzarlo nella vita corrente. Certo, nell’attualizzazione del mito non si può pretendere un ritorno a forme antiche, altrimenti si rischierebbe di ripetere cose ed eventi morti. La grandezza del mito sta nella sua sostanza eterna, che si modula in forme diverse in base al contesto storico sempre in divenire: ‘Non ci si può bagnare nello stesso fiume due volte’ diceva qualcuno”.