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Un Brera Mondiale, trent’anni fa moriva il più acculturato giornalista sportivo italiano

Inventore di neologismi rimasti nel linguaggio calcistico, figlio legittimo del Po’, “un padano degli argini e delle golene, della macchia e delle barene”, grazie ai continui riferimenti storico-linguistici, riuscì a valicare i confini paludosi di casa ed ergersi a simbolo nazionale di un’intera categoria

Le parole libero, abatino, contropiede, rifinitura, pretattica, goleador, incornata, palla-gol, centrocampista, melina…sono alcune delle invenzioni partorite dalla fervida mente e battezzate dalla sagace penna di Gianni Brera. A soli 30 anni, il “Il Principe della zolla” come amava definirsi, arrivò a dirigere la Gazzetta dello Sport con lo stile inconfondibile che univa una solida preparazione tecnica ad una capacità di innalzare le gesta calcistiche a rango di letteratura. I suoi soprannomi (rombo di tuono per Gigi Riva, abatino per Gianni Rivera, asso rococò per Roberto Baggio, deltaplano per Walter Zenga, stradivialli per Gianluca Vialli, barone tricchetracche e atipico per Franco Causio, cursore per Angelo Domenghini solo per citare i più famosi) divennero immortali ed il suo carisma condizionava persino grandi allenatori quali Nereo Rocco. L’anniversario della morte cade il giorno dopo una finale Mondiale che ha visto un ideale passaggio di consegne tra Leo Messi, il vecchio campione che ha centrato l’ultimo grande obiettivo della carriera, e Kylian Mbappé, il futuro ma già ex campione del mondo proprio sull’otto disegnato sul rettangolo di gioco, chiaro simbolo dell’infinito. Una finale che è stata uno scontro generazionale di due numeri 10, capaci di portarsi un’intera squadra sulle spalle, l’uno a rincorrere l’altro fino all’ultimo gong dei rigori, sul dischetto dove l’abilità e la freddezza incontrano la fortuna. Chissà che cosa avrebbe pensato l’incisivo Gianni di commentatori eccentrici come Lele Adani, amato ed odiato per il suo fervore che va ben oltre il compitino assegnato, considerando che non amava chi disegnava immagini dannunziane-mariniane perché il calcio è solo geometria? Chissà, soprattutto, che cosa avrebbe detto di tutto questo baccano mediatico sul parallelismo tra Maradona e Messi come se ci fosse un divario e non invece un’ideale continuità tra i due?

Brera descrisse Diego come una figura non umana: “Maradona è la bestia iperbolica, nel senso infernale, anzi mitologico di Cerbero: se fai tanto di rispettarlo secondo lealtà sportiva, lui ti pianta le zanne nel coppino e ti stacca la testa facendola cadere al suolo come un frutto dal picciolo ormai fradicio. È capace di invenzioni che forse la misura proibiva a Pelé”. Sicuramente negli ultimi anni con l’Albiceleste Leo ha introiettato quegli occhi luciferini, quella grinta agonistica e la leadership, un tempo più zoppicante, propri del pibe de oro. Lo stesso Pelé, che ci ha fatto preoccupare per i suoi problemi di salute, si è complimentato con la Nazionale argentina, pensando subito a come potesse gioire l’amico rivale Diego dal cielo. Pelé secondo Gianni era la perfezione tecnica, “un mostro di coordinazione, velocità, potenza, ritmo, sincronismo, scioltezza e precisione” a cui Maradona aggiungeva il guizzo geniale. Messi ci ha fatto gioire per quasi vent’anni grazie alle invenzioni, a metà tra il genio e la fatica. Da Pelé a Messi, passando per Maradona, ci sono 50 anni di stravolgimenti sociali e culturali. E se Messi fosse semplicemente una versione modernizzata di un mix dei due? Un Dio del calcio 3.0 con una coppa del mondo da aggiungere al palmares. E Mbappé? La versione 4.0 naturalmente. Gianni Brera, col suo occhio euclideo, approverebbe.

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