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Il dramma delle alluvioni e la carenza di tutela del territorio

Osserviamo tutti, sulla TV e sui social, il dramma che sta investendo l’Emilia Romagna con allagamenti, frane, crolli di ponti ed esondazioni che stanno mettendo in ginocchio buona parte della regione.

Al di là delle inesauribili polemiche de noantri in considerazione che – alla bisogna – siamo un popolo di 60 milioni di meteorologi e rimane indubbio invece che, per una volta, le previsioni sono state centrate.

I soliti esterofili ammirano sempre le previsioni del tempo tedesche che hanno un margine di sicurezza di averci azzeccato altissimo e la cosa non mi stupisce.

Non tanto per la pseudo precisione dei crucchi, quanto per la diversa conformazione morfologica della Germania che se arriva una perturbazione dai paesi scandinavi, trovano le prime colline sopra i 600 metri solo in prossimità delle Alpi.

In Italia la situazione è un po’ più bizzarra perché’ la morfologia del nostro territorio è fatto di Alpi, Appennini, altipiani, vallate dove la differenza la fa il cambio di correnti se vengono dal Rodano o dalla Russia con una serie di ostacoli che fanno si che le nostre previsioni locali siano sempre fallaci al punto che su alcuni siti regionali, quando c’è un piccolo cataclisma, iniziano con la frase imprevista nevicata etc etc laddove la parola improvvisa diventa l’alibi di non aver capito nulla.

Ovvio anche che i grandi sconvolgimenti atmosferici portano anche ad un feroce dibattito – dal gommista al professore universitario – sul riscaldamento globale o meno, con sputtanamento o meno di Greta e chi più ne ha più ne metta.

Io non mi addentro in questo aspetto climatologico perché non sono in grado di fare un’analisi su ciò che accade nell’atmosfera e non voglio certo abbassarmi a parlare di terra piatta o scie chimiche perché potrei essere interdetto dal mio direttore o dall’editore e non mi va.

Mi interessa altro.

La carenza di tutela del territorio.

Orbene, ci sono responsabilità politiche enormi pregresse della sinistra e attuali della destra e vi dico perché.

In pieno boom economico degli anni 60 il vecchio PCI vedeva – con un’ottica stalinista – nel contadino (notoriamente anticomunista e sul punto basti vedere i risultati elettorali dell’epoca in Valnerina o Sellanese per fare un esempio) come un nemico che doveva essere urbanizzato per creare un alienato da fabbrica che quindi avrebbe votato il PCI.

Logico quindi che è nata quella politica scellerata, nel silenzio di tutti, fatta di abbandono delle campagne e della montagna con conseguente mancata manutenzione del territorio e strade di polvere.

In conseguenza di ciò, con queste piccole ma costanti migrazioni interne locali, si è avuta l’esigenza di rubare terre intorno alle città e si è iniziato a costruire a dismisura con una cementificazione del territorio vergognosa.

Basta vedere la zona di Perugia-Corciano o la Valle Umbra sud dalla terrazza di Trevi.

Fabbriche su fabbriche che sono il monumento del nulla perché comunque l’economia non gira come il PD che sta per scomparire dietro il culto di una borsa di Luis Vuitton e non della Coop.

Ma ciò ha comportato la perdita di un patrimonio terriero imbarazzante con la mancata manutenzione dei fossi (spesso intubati manco dovessero mettere un catetere alla terra), dei campi abbandonati a se stessi e con oliveti che rimangono indomabili nella produzione olearia diventando sentinella del paesaggio umbro per eccellenza.

Mancano i pastori, veri guardiani, al pari dei cani maremmani, della montagna in un’ottica di quel rispetto sacrale che si ha per la madre terra e che guardando i cinghialari non come salvatori, ma come invasori cittadini di un territorio un tempo fatto di boschi e viti maritate e non di prati violentati da moto da enduro.

L’abbandono delle terra e la mancata istruzione di tecnici ha fatto sì che questa si vendichi con incessante e regolare cadenza per non essere stata rispettata da tutti seguendo le stagioni, laddove anche il cuore è diventato meccanizzato al pari delle industrie e perdendo quel barlume di romanticismo che genera benessere quando si passeggia in campagna.

È l’eterna diatriba tra il vivere negli agi della città o nel lusso della fatica della campagna ,laddove il sistema capitalistico di derivazione calvinista, ha fatto perdere quel barlume di certezza che risiedeva negli sciamani dei boschi sacri per far posto al cemento.

Mi viene in mente un bellissimo libro di Bino Sanminiatelli La vita in campagna (ed.Rusconi) che è sconosciuto ai più – anche perché maledetto toscano – che ha saputo pervadere di poesia l’osservazione dei papaveri o dei campi di grano a giugno come nessun altro.

Ma è un problema che viene affrontato solo quando viene giù il mondo e si allaga tutto con la consegnate difficoltà di tornare alla normalità dopo che si sono persi raccolti, stalle, strade e ponti con il consueto rimpallo di responsabilità tra le amministrazioni che piantano alberi ma poi non li innaffiano ,al punto che siamo tutti terrorizzati di vedere in giro operai con la motosega per come capitozzano/abbattono altri alberi per allargare la strada.

Un mondo di somari perché anche la destra non è da meno e non inverte la rotta verso l’oblio cosmico e superando la sinistra nella cementificazione per far ripartire l’economia ma mortificando tutto.

E non seguendo il concetto di tradizione con tutte le bellezze connesse in un’ottica iperliberista svilendo il concetto di rispetto per la terra.

La sopravvivenza di una città non dipende dalla rettitudine degli uomini che vi risiedono, ma dai boschi e dalle paludi che la circondano” diceva Henry David Thoreau nel 1850, pensate un po’.

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