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A spasso per l’Appennino, raccontando di pievi, monasteri e di capitalismo

Dopo tutti i miei articoli oramai penso che i lettori di questi miei editoriali inizino a farci il callo con titoli dell’articolo che potrebbero sottacere una contraddizione nella mia sconfinata fantasia che va di pari passo con il mio egoteismo, ma non raggiungerò mai l’Olimpo eterno come i titolisti de “il Manifesto” che ebbero il loro massimo splendore quando fu eletto papa Ratzinger.

Pagina principale con la sua foto a braccia aperte e il titolo ”Il Pastore tedesco”.

Geniale.

Detto ciò cerco di spiegare dove voglia arrivare partendo, come al solito, da Adamo ed Eva.

Per la stragrande maggioranza di noi Italiani, al di là del credo politico, il capitalismo più o meno eccessivo con tutte le sue storture, è il male assoluto.

Per i comunisti la lotta al capitale e ai padroni è un mantra, mentre per i camerati è lotta alla plutocrazia.

I primi lo vedono come nemico del popolo, i secondi anche come nemico dello spirito del singolo.

La cosa divertente è che hanno un nemico in comune, ma con rimedi diversi che hanno comportato, nel 20° secolo, vari orrori da cui ci stiamo leccando ancore le ferite.

Chi ha un minimo sindacale di cultura ritiene che lo spirito del capitalismo sia insito nella visione protestante del mondo (lo disse Max Weber) sulla considerazione che, all’interno di tale deriva cristiana, il padre ha il compito di preservare la proprietà privata in funzione del sostentamento della famiglia e gli schei sono implicitamente un riconoscimento di Dio per il nostro impegno nel lavoro duro.

Un antico pater familias.

Non per nulla nei paesi anglosassoni se una persona fallisce viene emarginato dalla società con disonore e va realmente al gabbio, mentre da noantri il fallito il giorno dopo si compra – sotto falso nome della madre che usufruisce della legge 104 e relativi sgravi fiscali – una Mercedes da 80.000 euro.

Differenza di non poco conto e osteggiata da Antonio Labriola definendo il capitalismo e parafrasandolo, un materialismo storico.

Ma in realtà il capitalismo non è nato con il protestantesimo, ma ben prima all’epoca dei Comuni in Italia – secondo recenti teorie che condivido – laddove il tessuto sociale dell’epoca con l’avvento delle Signorie si favorirono gli scambi economici tra le città.

La parcellizzazione del Monachesimo e della regola benedettina ha fatto poi sorgere tempo dopo, intorno al XII secolo, le prime pievi (romaniche) che usavano per la costruzione delle stesse spesso materiale di reimpiego del periodo romano o sorgendo dove c’erano, ai quei tempi ,santuari terapeutici e, in alcuni casi e ancor prima, castellieri (minuscoli villaggi ) dell’età del ferro.

Pievi che costellano il nostro appennino come presìdi della presenza guardinga di Dio e che avevano anche la funzione, con i loro porticati, di essere di riparo alle greggi sulla via della transumanza.

Basta vedere le favolose pievi sul tratturo – il sentiero per gli ovini – L’Aquila-Candela (nel Foggiano in Puglia).

Ma erano anche autonome o autarchiche, vedete voi, e favorivano lo scambio anche dei beni tra le persone del contado e del sapere notizie che venivano poi riportate nel Monastero sotto cui la pieve era la giurisdizione del potere economico.

Quindi non uno scambio di beni del capitalismo puro nel senso del profitto fine a se stesso, ma al fine alle sopravvivenza.

Questo almeno nelle intenzioni.

Ma la interazione degli scambi commerciali tra Monasteri e Comuni ha sortito anche un altro effetto che è stato il punto di svolta in tale epoca, l’uso della piuma d’oca per scrivere al posto di un pennellino e rendendo quindi la scrittura più veloce e produttiva.

L’annotazione dei costi e dei ricavi ha comportato quindi la tenuta della contabilità ad uso interno per vedere se c’era rimessa o profitto.

Un po’ come le nostre vecchie mamme casalinghe che, vuoi per rendere conto al marito dove andasse a finire lo stipendio, vuoi per far quadrare il bilancio, annotavano su fogli a quadretti le spese a fronte dei soldi elargiti per rendicontarli al marito esattore.

L’essenza quindi della programmazione economica e del risparmio che , avendolo, diventa profitto per tutta la famiglia.

Un capitalismo etico che oggi non c’è e che risulta un ossimoro.

L’insuperabile Jacques Le Goff (1924-2014), forse il più grande studioso del Medioevo, ebbe a distinguere il tempo del mercante e il tempo della Chiesa e sottolineando il diverso uso del tempo: il primo per il guadagno e il secondo per lo spirito e quindi contraddicendo il concetto di Max Weber di cui abbiamo parlato all’inizio.

Oggi l’Europa è a trazione nord Europea dove la mentalità è prevalentemente protestante con tutte le drammatiche conseguenze della sola logica del profitto economico e non dello spirito e che si riverbera sulla società in cui si esiste e si ha credibilità solo in proporzione ai soldi che si hanno.

Rimangono escluse quindi tutte quelle persone che gravitano intorno al contado che ancora sono i custodi della tradizione, partecipando attivamente – nelle frazioni montane – alla salvaguardia delle Pievi a mezzo delle confraternite religiose dove, guarda caso, non ci sono più giovani che portano in spalla il Santo di turno.

Il non coltivare la tradizione per la supremazia del capitalismo (il materialismo storico di Labriola di cui sopra) sta comportando che si sfocia nella superstizione perché’ non capita o non voluta capire, con la conseguenza che c’è una deriva morale che viene superata solo se si ha il saldo attivo sul conto corrente bancario e decretando la vittoria del capitalismo.

Pier Paolo Pasolini scrisse nel 1962 un articolo su le vie nuove in cui – da marxista – auspicava un concetto di recupero della tradizione in favore dello spirito e andandosi a sovrapporre al pensiero di Julius Evola in un momento storico, il 1962 , in cui c’erano i primi segnali della deriva oscurantista luterana.

Aveva previsto tempi bui che sono arrivati.

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