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L’arte come dialogo con Dio e tra gli uomini

Intervista ad Anna Shamira Minozzi alla scoperta delle composizioni calligrafiche

Anna Shamira Minozzi è un’artista italiana ispirata dalla calligrafia islamica ed è ideatrice di innovative composizioni calligrafiche. In virtù dei risultati raggiunti in questa sua espressione artistica, è stata invitata nel 2004 dall’Ambasciata del Regno dell’Arabia Saudita a partecipare a un concorso per un bozzetto di un francobollo, indetto dal Ministero delle Poste e Telecomunicazioni del Regno dell’Arabia Saudita. Sono molteplici i riconoscimenti ricevuti per la sua bravura artistica ed ha avuto il grande onore di ricevere i complimenti come artista. betgit giriş

Shamira Minozzi, parlaci di te.

“Sono una donna amante della bellezza in ogni sua forma, una donna che attraverso la propria arte cerca di esprimere ciò che ha nel cuore e l’immensa gratitudine verso Dio per tutto ciò che le è stato donato”.

Come è nato l’interesse per l’arte? Ma soprattutto, ci sono state figure determinanti nelle sue scelte di vita e formazione?

“La passione per l’arte mi è stata trasmessa da mio padre, anch’egli artista. Fin da piccola mi metteva a disposizione colori e piccole tele e mi faceva stare nel suo studio mentre dipingeva, e io, rapita dalla sua bravura, cercavo di imitarlo. Lui mi incentivava sempre facendomi complimenti per le mie piccole ‘opere’ anche se erano disegni di una bimba di 5 anni. È stato fondamentale questo suo incoraggiarmi e darmi sicurezza. È stato lui ad aiutarmi a spiccare il volo verso un futuro libero e ricco di creatività, senza paure che inibiscono solo la ricchezza che possiamo attingere da noi stessi”.

In che modo l’arte può essere trait d’union tra popoli e religione?

“La cultura, le arti e il pensiero portano alla fratellanza, al rispetto e non alla divisione e all’odio. Se la religione ‘predica’ la pace, l’arte è pace. Spiegherò, quindi, il percorso che mi ha spinto a utilizzare la mia arte come potente mezzo di conoscenza e di comunicazione, capace di creare un fertile terreno di scambio e di dialogo. La mia è una testimonianza di come ci si possa arricchire culturalmente e spiritualmente viaggiando in un paese straniero e l’esperienza di una donna occidentale che, nei suoi frequenti viaggi in Egitto, incontra l’arte islamica e se ne innamora a tal punto da diventarne una calligrafa. Ho iniziato come artista ispirata all’antico Egitto, invaghita della sua cultura e dei geroglifici. Tutti i segni sono immagini e alcuni tra loro possiedono la forza comunicativa del concetto che esprimono. Quindi, ognuno di noi può essere colpito inconsciamente da un simbolo anche se non ne capisce il senso. È quello che succede con i geroglifici, ti parlano anche se non ne comprendi il significato. A volte alcune visioni suggerite da stimoli primordiali, possono produrre straordinarie intuizioni. Per dirla come Albert Einstein: ‘L’immaginazione è più importante della conoscenza’. La visione di elementi che racchiudono esperienze passate, può aiutarci a comprendere meglio il presente, a coglierne aspetti più profondi. Nulla è poi così nuovo sotto la luce del sole. I geroglifici (‘parole sacre’, in greco) per gli Egiziani erano Medu Necer ‘parole di Dio’ e servivano a comunicare con il divino, funzione propria anche della scrittura araba, sublime strumento per trasmettere le parole ‘messaggere’ dei versetti delle Sure del Corano. Venendo quindi per la prima volta in contatto con l’arte islamica, sono rimasta folgorata dalla scrittura, anche se non riuscivo a leggerla poiché non conoscevo l’arabo. Da quel momento la Luce dell’islam è diventata per me una fonte ispiratrice. Dopo essere stata così colpita come artista dalla bellezza dell’arte islamica, mi sono inoltrata nella cultura che stava alla base di tanta bellezza ed eleganza. Quest’arte esprime inequivocabilmente il significato del nome Islam e quindi mi ha fatto innamorare del grandioso messaggio di pace che porta il Sacro Corano e della grande saggezza del suo Profeta Mohammad. Il mio senso artistico è stato ispirato in modo particolare dalla forma calligrafica della Basmala. La mia arte di calligrafa nasce dunque da un sincero e profondo amore e rispetto verso l’Islam puro. Ero consapevole che iniziando il mio cammino di calligrafa, toccavo un’arte sacra per milioni di musulmani, cosa che non dimentico mai prima di eseguire una mia opera e che mi porta quindi a verificare accuratamente la correttezza di ciò che mi appresto a riportare sulla tela. Ho iniziato copiando i 99 Nomi di Dio, passi del Corano. Poi, come artista, ho sentito l’esigenza di ideare qualcosa di nuovo e, ispirata dalla leggiadria di questa arte, ho ideato la mia prima Basmala a forma di farfalla. La gioia che ho provato è stata immensa perché per me ciò significava un mondo nuovo che si apriva per la mia creatività. Incominciai dunque a ideare e realizzare innovative composizioni calligrafiche. L’arte può essere un vero ponte tra culture diverse, tra oriente e occidente, un ponte tramite il quale ci si può serenamente incontrare per avere un proficuo scambio culturale e umano. È questo infatti ciò che voglio dimostrare nel mio cammino di artista occidentale che si esprime nell’arte della calligrafia islamica. Io credo che si debba sempre sostenere la divulgazione della cultura. Dove c’è cultura e conoscenza, non esistono pregiudizi o ‘sbagliate informazioni’ tendenziose che portano a dividere, anziché unire. Dove c’è scambio culturale c’è il rispetto dell’altro. Dove c’è condivisione, dove si incontrano culture differenti c’è sempre arricchimento e ispirazione. Faccio un esempio: io sono una pittrice, lavoro con i colori e poniamo il caso che io disponga solo dei colori rosso, giallo, blu e bianco, perché l’unico negozio che conosco e che mi fornisce i colori dispone solo di queste tinte. Poi incontro un venditore di colori straniero che vende il color lilla, arancio, smeraldo e mi fa scoprire anche i colori oro e argento. Ora come artista ho a disposizione più colori e la mia fantasia potrà volare e dar sfogo a maggiore creatività, senza che io debba rinunciare ai miei amati colori base, ma aggiungendone di nuovi che prima non avevo. Questo vuol dire che io non cambio e non rinuncio alla mia identità artistica aggiungendo nuovi colori, ma anzi l’arricchisco. Se un occidentale, guardando un mio quadro di arte islamica, apprezzasse la bellezza dei suoi contenuti e in lui nascesse la curiosità o il desiderio di approfondirne la conoscenza e se un orientale, di fronte allo stesso quadro, provasse un senso di felicità nello scoprire che un occidentale si sia prodigato nel comprendere, amare e rappresentare ciò che gli era estraneo e ciò magari suscitasse in lui il desiderio di ricambiare l’interesse dimostrato, io avrò raggiunto il mio successo più grande anche se non avrò venduto quel quadro”.

Chi è stato, se c’è stato, il suo padre spirituale per il mondo arabo e la religione islamica?

“Per quanto riguarda la spiritualità legata alla cultura islamica è stato il Maestro Sufi Gabriel Mandel Khan mentre per quanto riguarda la sfera spirituale in generale il mio padre spirituale è stato proprio mio padre”.

Che impressione cerca di suscitare in chi osserva le sue opere?

“La tradizione ha una forte presa su di noi e una mente che pensa seguendo linee tradizionali e schemi consolidati è portata al rifiuto di scoprire il nuovo. Dobbiamo ritornare curiosi come bambini, avere uno spirito indagatore e cercare di scoprire la verità di ogni cosa. Bisogna approfondire ciò che ha suscitato il nostro interesse, non fermandoci al sentito dire e non accontentandoci di ciò che ci viene detto. Il desiderio di sentirci sicuri genera isolamento e favorisce la divisione, aumentando l’antagonismo. Se nel profondo sentiamo e comprendiamo la verità di ciò, allora cominceremo a cambiare radicalmente il modo di relazionarci con gli altri e solo allora saranno possibili unione e fratellanza tra gli uomini. L’arte è un potentissimo mezzo di comunicazione, nel quale il principio ermeneutico ed estetico si sovrappongono, dando origine a un luogo di pensiero e di incontro. L’arte può dunque essere un ponte tra culture differenti, uno stimolo vitale alla comprensione e alla conoscenza. Essa tra l’altro si avvale di un elemento universale e assoluto: la bellezza. Nella mia arte calligrafica, la parola si plasma in forme e colori in una metamorfosi continua, per stimolare e incuriosire chi l’osserva con l’intento di generare la voglia di ‘esplorazione’, di scoprire nuovi luoghi dove incontrare ciò che ignoriamo di noi stessi e degli altri, risvegliando il desiderio di uscire dai propri schemi e riducendo la distanza tra noi e ciò che ci è sconosciuto. Quindi dobbiamo ricercare ‘la bellezza’ e possiamo farlo anche attraverso l’arte, perché essa può essere una grande chiave di accesso al superamento delle nostre personali barriere e farci scoprire un mondo a noi sconosciuto aprendo così la mente a nuove idee e prospettive. Come diceva il grande Albert Einstein: ‘La mente è come un paracadute, funziona solo se si apre’ – ‘La mente che si apre ad una nuova idea non torna mai alla dimensione precedente’. Questo vuole essere lo spirito della mia arte… un traghetto tra oriente e occidente”.

Ha dovuto superare molti ostacoli o pregiudizi in quanto unica donna e cattolica che espone nei contesti islamici, da una parte o dall’altra?

“Tutte le persone che iniziano a percorre nuovi sentieri e propongono nuove idee, trovano sempre qualcuno che cerca di ostacolarle perché ha paura del nuovo e non ha abbastanza fede in ciò in cui crede. Per difendersi quindi dalle proprie incertezze giudica ciò che non conosce. Invece il cuore di chi crede veramente è sempre benevolo, non giudica, ma sta a osservare e riconosce tutto ciò che è volto al bene comune, anche se proviene da un’altra professione di fede. Il vero credente sente subito la fratellanza e il comune amore verso l’Unico Dio”.

Qual è stato il riconoscimento più gratificante che ha ricevuto?

“Ogni volta che leggo lo stupore sul volto di chi osserva una mia opera e subito dopo la gioia manifestata con un sorriso spontaneo. Far nascere questo sentimento in chi osserva una mia opera, ecco questo per me è il riconoscimento più bello, più gratificante e vale per me più di mille parole e riconoscimenti istituzionali che certamente sono importanti, ma vivere l’emozione delle persone è davvero molto più coinvolgente ed emozionante”.

Progetti su cui sta lavorando o da realizzare?

“Tanti, ho una grande immaginazione sempre fertile”.

Un Brera Mondiale, trent’anni fa moriva il più acculturato giornalista sportivo italiano

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Inventore di neologismi rimasti nel linguaggio calcistico, figlio legittimo del Po’, “un padano degli argini e delle golene, della macchia e delle barene”, grazie ai continui riferimenti storico-linguistici, riuscì a valicare i confini paludosi di casa ed ergersi a simbolo nazionale di un’intera categoria hasbet giriş

Le parole libero, abatino, contropiede, rifinitura, pretattica, goleador, incornata, palla-gol, centrocampista, melina…sono alcune delle invenzioni partorite dalla fervida mente e battezzate dalla sagace penna di Gianni Brera. A soli 30 anni, il “Il Principe della zolla” come amava definirsi, arrivò a dirigere la Gazzetta dello Sport con lo stile inconfondibile che univa una solida preparazione tecnica ad una capacità di innalzare le gesta calcistiche a rango di letteratura. I suoi soprannomi (rombo di tuono per Gigi Riva, abatino per Gianni Rivera, asso rococò per Roberto Baggio, deltaplano per Walter Zenga, stradivialli per Gianluca Vialli, barone tricchetracche e atipico per Franco Causio, cursore per Angelo Domenghini solo per citare i più famosi) divennero immortali ed il suo carisma condizionava persino grandi allenatori quali Nereo Rocco. L’anniversario della morte cade il giorno dopo una finale Mondiale che ha visto un ideale passaggio di consegne tra Leo Messi, il vecchio campione che ha centrato l’ultimo grande obiettivo della carriera, e Kylian Mbappé, il futuro ma già ex campione del mondo proprio sull’otto disegnato sul rettangolo di gioco, chiaro simbolo dell’infinito. Una finale che è stata uno scontro generazionale di due numeri 10, capaci di portarsi un’intera squadra sulle spalle, l’uno a rincorrere l’altro fino all’ultimo gong dei rigori, sul dischetto dove l’abilità e la freddezza incontrano la fortuna. Chissà che cosa avrebbe pensato l’incisivo Gianni di commentatori eccentrici come Lele Adani, amato ed odiato per il suo fervore che va ben oltre il compitino assegnato, considerando che non amava chi disegnava immagini dannunziane-mariniane perché il calcio è solo geometria? Chissà, soprattutto, che cosa avrebbe detto di tutto questo baccano mediatico sul parallelismo tra Maradona e Messi come se ci fosse un divario e non invece un’ideale continuità tra i due?

Brera descrisse Diego come una figura non umana: “Maradona è la bestia iperbolica, nel senso infernale, anzi mitologico di Cerbero: se fai tanto di rispettarlo secondo lealtà sportiva, lui ti pianta le zanne nel coppino e ti stacca la testa facendola cadere al suolo come un frutto dal picciolo ormai fradicio. È capace di invenzioni che forse la misura proibiva a Pelé”. Sicuramente negli ultimi anni con l’Albiceleste Leo ha introiettato quegli occhi luciferini, quella grinta agonistica e la leadership, un tempo più zoppicante, propri del pibe de oro. Lo stesso Pelé, che ci ha fatto preoccupare per i suoi problemi di salute, si è complimentato con la Nazionale argentina, pensando subito a come potesse gioire l’amico rivale Diego dal cielo. Pelé secondo Gianni era la perfezione tecnica, “un mostro di coordinazione, velocità, potenza, ritmo, sincronismo, scioltezza e precisione” a cui Maradona aggiungeva il guizzo geniale. Messi ci ha fatto gioire per quasi vent’anni grazie alle invenzioni, a metà tra il genio e la fatica. Da Pelé a Messi, passando per Maradona, ci sono 50 anni di stravolgimenti sociali e culturali. E se Messi fosse semplicemente una versione modernizzata di un mix dei due? Un Dio del calcio 3.0 con una coppa del mondo da aggiungere al palmares. E Mbappé? La versione 4.0 naturalmente. Gianni Brera, col suo occhio euclideo, approverebbe.

Donne per Napoli, la sesta edizione del Premio ideato da Raffaele Carlino

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Trionfale la sesta edizione del Premio “Donne per Napoli” – Carpisa Yamamay Miriade Jaked. La kermesse ideata dall’imprenditore e presidente di Carpisa e Miriade, si è svolta giovedì 15 Dicembre presso il Teatro Posillipo di Napoli. betrupi giriş

Il direttore artistico dell’evento, Lorenzo Crea, reduce dalle passate edizioni, conferma il suo operato. All’interno della manifestazione numerosi volti della tv, dello spettacolo, della moda, del giornalismo e dell’imprenditoria. Una serata all’insegna del divertimento e della spensieratezza lasciando spazio alle premiazioni, avvenute nella prima parte della serata. Il riconoscimento premia le donne che hanno dato onore alla città partenopea.

Le donne premiate che si sono distinte nei vari settori

Da quest’anno è stato aggiunto il riconoscimento “Istituzioni” in memoria di Graziella Pagano, mamma del direttore artistico, scomparsa prematuramente lo scorso settembre in seguito a una lunga malattia.

Le altre sezioni sono: Giornalismo, Sport, Imprenditoria, Musica, Cinema e Teatro, Cultura, Radio, Audiovisivo, Moda, Ricerca scientifica, Giovani e Inclusione sociale.

La serata è stata presentata e capitanata magistralmente da Veronica Maya, volto noto della tv, conduttrice e showgirl italiana.

I premi di questa sesta edizione sono stati assegnati al Ministro per le Riforme Istituzionali e la Semplificazione normativa Maria Elisabetta Alberti Casellati, già presidente del Senato, per la categoria Istituzioni; Tiziana Panella (Giornalismo), Stefania Brancaccio (Imprenditoria), Emmanuela Spedaliere (Cultura), Maria Nazionale (Musica, Cinema e Teatro ), Angela Procida (Sport), Nilufar Addati (inclusione sociale), Barbara Foria (Radio), Maria Felicia De Laurentis (Ricerca scientifica), Alessandra Moschillo (Moda). Per la sezione Audiovisivo alle attrici della soap di Rai3 “Un Posto al sole”, presenti all’evento Samanta Piccinetti, Nina Soldano, Mariasole di Maio e Gina Amarante e a quelle della serie tv di Rai1 “Mina settembre” con Rosalia Porcaro e Benedetta Valanzano, per la sezione Giovani, al cast della serie tv di Rai2 “Mare fuori”: Kyshan Wilson e Giovanna Sannino, mentre per la sezione Moda a Giulia Valentino.

Il Comitato tecnico scientifico del Premio

Il presidente Raffaele Carlino, il direttore artistico Lorenzo Crea, La prof.ssa Annamaria Colao, cattedra Unesco per l’Educazione alla salute e sviluppo sostenibile, presidente della Società Italiana di endocrinologia e fra le prime dieci scienziate italiane al mondo per numero di pubblicazioni in campo medico-scientifico, il prof. Raffaele Cercola, ordinario di Marketing alla Seconda Università di Napoli e fra i maggiori esperti italiani del settore, Veronica Maya, Francesco Tripodi, direttore generale di Miriade e amministratore delegato del Napoli Femminile calcio, Francesco Sangiovanni imprenditore e titolare del Teatro Posillipo, Enzo Agliardi, giornalista economico, sono i componenti del Comitato tecnico scientifico del Premio “Donne per Napoli”.

Alla serata sono intervenuti il Sindaco di Napoli Gaetano Manfredi che ha premiato Maria Nazionale, Mariano Bruno, gli assessori del Comune di Napoli Chiara Marciani e Luca Trapanese, il campione sportivo ex portiere del Napoli Pino Taglialatela, il vicepresidente nazionale di Sistema Moda Italia Carlo Palmieri, il direttore del centro di Produzione Rai Tv di Napoli e presidente della sezione Industria Culturale e Creativa dell’Unione industriali di Napoli Antonio Parlati, l’ex direttore del  centro di Produzione Rai Tv di Napoli Francesco Pinto, il presidente della Fondazione Ravello Dino Falconio, l’imprenditore e socio di Miriade Luigi Panza.   

A Gianluigi Lembo con la sua band della Taverna “Anema e Core” e al Dj Marco Piccolo è spettato l’arduo compito di intrattenere gli ospiti, che si sono divertiti molto scatenandosi sulle note delle hit partenopee, italiane e internazionali.

I partner dell’evento

I partner della serata sono stati Techmade, azienda del settore elettronico che ha omaggiato i premiati di un grazioso smartwatch e Raffaele Caldarelli pasticcere che ha proposto assaggi dei suoi panettoni artigianali.

Trattare la violenza di genere, “La Rinascita di Venere”: il nuovo libro di Caterina Laita

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Nella sede dell’ordine dei giornalisti della Campania martedì 20 dicembre 2022 alle ore 11:00 si presenterà il primo libro della giornalista Caterina Laita: “La rinascita di Venere – siamo tutti parte civile” di Edizioni Mea. Un libro voluto a seguito di quello che sempre stato l’impegno della giornalista in materia di violenza sulle donne e violenza di genere, tratto da tre storie vere, tre donne che si sono raccontate riponendo la fiducia nell’autrice e facendo insieme un excursus di quelli che sono stati gli anni degli abusi psicologici fisici e sessuali secondo tre prospettive: quella di moglie, di madre, di figlia. roketbet

Un percorso complesso dove la giornalista ha provato ad entrare con delicatezza e sobrietà all’interno di risvolti atrocemente crudeli che hanno stravolto la vita non solo della vittima, ma anche delle persone che le hanno vissuto accanto. La rinascita di Venere, con il patrocinio morale dell’Ordine dei giornalisti della Campania, vanta la prefazione del vice presidente, Domenico Falco, la postfazione dell’avvocato Maria Visone, responsabile legale per la Campania dell’Osservatorio violenza e suicido.

Una rinascita interiore in cui tutti possono ambire

“Un titolo non scelto a caso perché ogni essere umano riesce a risorgere come l’araba fenice dalle proprie ceneri” – questo ha dichiarato l’autrice sottolineando: “Una rinascita interiore a cui ognuno di noi può ambire, una rinascita che può esistere soltanto attraverso il supporto psicologico, quello giusto, quello dato dall’incontro con le persone che riescono a toccare i giusti punti dell’animo umano e riescono a far venire fuori il mostro che ogni donna che ha subito abusi e violenze porta dentro di sé. Un mostro talvolta celato da semplici sorrisi o accenni di assenso dovuti in molti casi alla stanchezza di dover combattere ancora. Ma la lotta che si affronta ogni giorno avviene dapprima con se stessi, poi contro la persona che ci sta facendo del male ed infine contro la magistratura che non sempre soddisfa le nostre aspettative, è una battaglia che va fatta ugualmente nonostante le difficoltà e nonostante gli intoppi inevitabili di un sistema che non è sempre perfetto. Il valore della denuncia è alla base di ogni rinascita perché è solo denunciando il proprio carnefice che ci si dà una seconda possibilità”, ha concluso.

Nel corso della presentazione verranno letti piccoli passaggi del testo a cura della giornalista Simonetta di Chiara Ruffo

Usama Saad, quando la bellezza nasce dall’incontro di differenti culture

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Una mostra al Museo Colle del Duomo di Viterbo dell’artista italo-egiziano

La bellezza nasce sempre dall’incontro di differenti culture. E di bellezza nell’opera di Usama Saad se ne trova molta. Bellezza che si può godere nella splendida cornice della città medievale di Viterbo, all’interno del Museo Colle del Duomo, l’artista italo-egiziano Usama Saad, con la collaborazione di Maria Gabriella Quercia e a cura di Ursula Bonetti, dove l’artista è ospite con “Ichthys” (Pesce), una mostra personale dedicate all’arte incisoria.

Usama Saad nasce a Il Cairo (Egitto) nel 1963, dove si laurea in Economia.

Inizia da giovanissimo l’attività di illustratore per il giornale della capitale egiziana Rose al-Yūsuf per poi trasferirsi in Itala nel 1986 dove, a distanza di un anno, riesce ad entrare al Centro Sperimentale di Cinematografia.

Nel 2005, dopo essere rimasto affascinato dall’arte incisoria, frequenta diversi laboratori ad Urbino che gli permettono di congiungere la cultura del suo paese d’origine con l’antica tradizione incisoria europea.

Per mezzo di queste tecniche dà vita ad un personale stile dove scritture coraniche, figure umane, animali fantastici e simboli esoterici, sempre ai confini dell’astrazione, che riportano ad enigmi senza tempo.

Ha inaugurato con i suoi lavori il padiglione Italia all’Expo di Dubai 2022 e una nota azienda alimentare italiana gli ha commissionato il disegno di un nuovo formato di pasta.

Con la ricchezza espressiva delle sue opere, Usama Saad testimonia sia che il Mediterraneo è la culla delle più grandi civiltà, sia che la bellezza nasce sempre dall’incontro di differenti culture.

𝐂𝐨𝐦𝐞 è 𝐧𝐚𝐭𝐨 𝐥’𝐢𝐧𝐭𝐞𝐫𝐞𝐬𝐬𝐞 𝐩𝐞𝐫 𝐥’𝐚𝐫𝐭𝐞, 𝐜𝐢 𝐬𝐨𝐧𝐨 𝐬𝐭𝐚𝐭𝐞 𝐟𝐢𝐠𝐮𝐫𝐞 𝐝𝐞𝐭𝐞𝐫𝐦𝐢𝐧𝐚𝐧𝐭𝐢 𝐧𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐬𝐮𝐚 𝐯𝐢𝐭𝐚 𝐨 𝐟𝐨𝐫𝐦𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞?

“Nella mia vita è stato decisivo l’incontro con Ernesto Nino Palleschi, incisore e grafico di fama internazionale. Da qui la passione per un’arte antichissima di cui i primi esempi documentati ci arrivano dall’Egitto e dalla Cina fino a raggiungere il culmine nel rinascimento italiano (degne di nota ad esempio sono la produzione di Giovanni Bellini e del Parmigianino). Nasce così la mia collaborazione con le stamperie più antiche e prestigiose di Roma, come la Stamperia d’Arte Caprini, la Stamperia del Tevere e la Stamperia Ripa69”.

𝐈𝐧 𝐜𝐡𝐞 𝐦𝐨𝐝𝐨 𝐥’𝐚𝐫𝐭𝐞 𝐢𝐧𝐜𝐢𝐬𝐨𝐫𝐢𝐚 𝐩𝐮ò 𝐞𝐬𝐬𝐞𝐫𝐞 𝐜𝐨𝐧𝐬𝐢𝐝𝐞𝐫𝐚𝐭𝐚 “trait d’union” 𝐭𝐫𝐚 𝐝𝐢𝐯𝐞𝐫𝐬𝐞 𝐜𝐮𝐥𝐭𝐮𝐫𝐞?

“Con la precedente mostra ‘Alfabeti Riflessi’, ospitata nella Casina delle Civette dei Musei di Villa Torlonia e poi nel Museo Colle del Duomo di Viterbo, ho utilizzato la scrittura, la calligrafia araba e l’arte incisoria come richiami simbolici di legami tra diverse culture. Le opere nate dalla collaborazione con 23 artiste di differenti paesi, testimoniano la ricerca di un linguaggio comune nella sperimentazione dell’arte incisoria la nonostante l’utilizzo di alfabeti, stili e tecniche diversi. Questa forma di arte partecipativa che accomuna più artisti contemporanei, crea dialogo e confronto con qualcosa di umanamente, stilisticamente e culturalmente diverso dimostrando che l’arte è la Koinè del linguaggio comune, che unisce le persone al di là di credo religioso o provenienza. E questo è anche il filo che unisce la mostra Alfabeti Riflessi con Ichthys”.

𝐏𝐮𝐨̀ 𝐬𝐩𝐢𝐞𝐠𝐚𝐫𝐜𝐢 𝐥𝐚 𝐬𝐜𝐞𝐥𝐭𝐚 𝐝𝐞𝐥 𝐏𝐞𝐬𝐜𝐞 𝐨 𝐈𝐜𝐡𝐭𝐡𝐲𝐬 𝐜𝐨𝐦𝐞 𝐬𝐢𝐦𝐛𝐨𝐥𝐨 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐦𝐨𝐬𝐭𝐫𝐚?

“Il pesce ha una forte valenza simbolica ancestrale per le diverse fedi e culture. È simbolo anche grafico del Cristo, diffuso nelle prime comunità cristiane, dato la parola greca Ichthus forma con le iniziali la frase ” Gesù Cristo Salvatore figlio di Dio”. In Cina e in India è il simbolo di una nuova nascita, ed era anche utilizzato durante i riti funebri. Nella tradizione ebraica, il pesce è un simbolo di Messia (indicato con la stessa parola). Simboleggia anche la fede, la purezza, e la Vergine Maria, mentre nella tradizione alchemica il pesce è interpretato come un simbolo di rinascita mistica. Nella vita è il simbolo dell’uomo che deve navigare anche controcorrente nelle varie fasi della vita e nella difficile contemporaneità. Il fatto stesso che la mostra attuale, come la precedente, siano state ospitate presso il Museo Colle del Duomo di Viterbo, può considerarsi un completamento di questo dialogo senza tempo tra fedi e culture. Il Museo infatti è stato fondato in occasione del Giubileo del 2000. La sua realizzazione è stata possibile grazie alla volontà della curia vescovile al fine di conservare il patrimonio storico e culturale della diocesi e della città ed è luogo di importanti convegni, mostre e laboratori didattici interculturali”.

𝐈𝐥 𝐠𝐨𝐯𝐞𝐫𝐧𝐨 𝐞𝐠𝐢𝐳𝐢𝐚𝐧𝐨, 𝐬𝐨𝐭𝐭𝐨 𝐠𝐥𝐢 𝐚𝐮𝐬𝐩𝐢𝐜𝐢 𝐝𝐞𝐥 p𝐫𝐞𝐬𝐢𝐝𝐞𝐧𝐭𝐞 𝐀𝐛𝐝𝐞𝐥 𝐅𝐚𝐭𝐭𝐚𝐡 𝐄𝐥 𝐒𝐢𝐬𝐢, 𝐡𝐚 𝐝𝐞𝐬𝐭𝐢𝐧𝐚𝐭𝐨 𝐦𝐨𝐥𝐭𝐢 𝐟𝐨𝐧𝐝𝐢 𝐚𝐥 𝐫𝐞𝐬𝐭𝐚𝐮𝐫𝐨 𝐞 𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐜𝐨𝐧𝐬𝐞𝐫𝐯𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐢 𝐬𝐢𝐭𝐢 𝐚𝐫𝐜𝐡𝐞𝐨𝐥𝐨𝐠𝐢𝐜𝐢 𝐞 𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐢𝐧𝐚𝐮𝐠𝐮𝐫𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐢 𝐧𝐮𝐨𝐯𝐢 𝐩𝐢𝐥𝐢 𝐦𝐮𝐬𝐞𝐚𝐥𝐢. 𝐂𝐨𝐬𝐚 𝐧𝐞 𝐩𝐞𝐧𝐬𝐚, 𝐞 𝐪𝐮𝐚𝐥 𝐞̀ 𝐢𝐥 𝐬𝐮𝐨 𝐫𝐚𝐩𝐩𝐨𝐫𝐭𝐨 𝐚𝐭𝐭𝐮𝐚𝐥𝐞 𝐜𝐨𝐧 𝐢𝐥 𝐬𝐮𝐨 𝐩𝐚𝐞𝐬𝐞 𝐝𝐢 𝐨𝐫𝐢𝐠𝐢𝐧𝐞?

“Sono molti anni che non torno in Egitto ma accolgo con gioia questo impegno del governo nel preservare il patrimonio storico e artistico immenso che abbiamo. Sia come artista, sia, e soprattutto, come uomo che è ben consapevole dell’importanza di educare e lasciare alle future generazioni di giovani egiziani, la consapevolezza e la ricchezza delle nostre radici. Sarebbe un piacere e un onore tornare ed essere testimone di questi cambiamenti, nonché esporre un giorno le mie opere, testimonianza dei destini incrociati tra Oriente e Occidente”.

𝐏𝐫𝐨𝐠𝐫𝐚𝐦𝐦𝐢 𝐩𝐞𝐫 𝐢𝐥 𝐟𝐮𝐭𝐮𝐫𝐨, 𝐩𝐫𝐨𝐠𝐞𝐭𝐭𝐢 𝐢𝐧 𝐜𝐚𝐧𝐭𝐢𝐞𝐫𝐞 𝐝𝐚 𝐫𝐞𝐚𝐥𝐢𝐳𝐳𝐚𝐫𝐞 𝐨 𝐬𝐮 𝐜𝐮𝐢 𝐬𝐭𝐚 𝐥𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐧𝐝𝐨?

“Ci sono due progetti: uno riguardante una nota azienda alimentare italiana, per la quale ho realizzato due modelli per formati di pasta che coniugano l’arte visiva al piacere del gusto. L’altro riguarda la trasformazione del suono in un segno grafico. La rappresentazione grafica delle vibrazioni sonore richiede, come in altri miei progetti, la collaborazione di diversi artisti e professionalità come per esempio in questo caso quello di un tecnico del suono”.

Un’opera di Usama Saad

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Si ringraziano la curatrice della mostra Ursula Bonetti, la responsabile dell’Ufficio Mostre Archeoares Francesca Menna e Archeoares s.n.c. gestore del Polo Monumentale Colle del Duomo di Viterbo.

Il volto anempatico della crudeltà e lo sguardo che deumanizza le vittime

Nell’apprendere di efferati fatti di cronaca nera e condotte perpetrate con assoluta crudeltà, ci interroghiamo e soffermiamo sulle ragioni dietro coloro che sono gli attori di siffatte gesta, sul motore malevolo che anima l’agire e il pensiero degli esecutori materiali del crimine; ma che ne è delle vittime, di chi viene sfiorato, sovente rimettendoci la vita, dalle spirali del male, che ne è di chi ha dovuto confrontarsi e riflettersi nel volto anempatico della crudeltà?

Chiara Gualzetti, uccisa il 27 giugno 2021 con ferocia inaudita a Monteveglio (Bologna). Il giovane assassino, suo coetaneo, l’aveva adescata con un appuntamento, facendo leva sui sentimenti e le insicurezze della ragazza

Forse vorrebbe raccontarcelo Chiara Gualzetti, la giovane sedicenne di Monteveglio uccisa barbaramente nell’estate del 2021 da un coetaneo di cui era invaghita, deumanizzata e distrutta, in quel luogo da cui non può oramai narrarci dell’esperire le “ali del male”, la sozzura di una cattiveria che ha giocato con i suoi sentimenti di insicura adolescente alle prese con i turbamenti e le attrazioni per la persona sbagliata. Strazianti e comprensibili le parole del padre, Vincenzo Gualzetti, emblema di tutti quegli interrogativi su una ferocia non sorretta da motivazioni sussistenti: “Mi ha tolto una figlia senza un perché, questo è l’aspetto più folle. La parola ‘perdono’ credo non possa esistere“. Per i familiari delle vittime che sono state preda e oggetto di una cattiveria becera, l’ergastolo del dolore è imperituro, così come il senso di ingiustizia. Ma dove non scorgiamo una profondità volta a spiegare atti così ignominiosi, è plausibile parlare di rieducazione, ravvedimento e speranza di cambiamento futuro?

Disumanizzare, questo fa il criminale, l’aggressore, il predatore che colleziona oggetti, passa da individuo all’altro come spinto da una voracità inesauribile, preso da un senso di onnipotenza, di grandiosità narcisistica…” (Mignani A., 2022)

La crudeltà assoluta è dunque identificabile in un deficit, proprio come le conclusioni delle perizie sul killer in erba di Chiara hanno confermato, documentando totale incapacità di provare senso di colpa e rimorso, di accedere alla risposta umana dell’empatia, il tutto senza che vi siano componenti psicotiche o compromissione della lucida facoltà di intendere e volere.

Il vuoto che origina il male, il vuoto che si traduce nell’erosione empatica, nell’assenza di considerazione dell’altrui esistenza e universo sensibile, il baratro che non vede, perché non può e semplicemente non ha interesse a farlo, non considera altro dal proprio bisogno e nulla che travalichi una insensata pulsione distruttiva. Le vittime? Null’altro che bersagli, recipienti cui incanalare rabbia, nichilismo e livore, nella disponibilità di un’azione che cerca nella propria traiettoria un soggetto da piegare e irretire. Da questo vuoto e analfabetismo emotivo scaturisce l’atto che è incurante delle conseguenze, dei codici morali, che non concepisce quella fondamentale dimensione dell’autoriflessività da cui poi può scaturire il rimorso. Lo studio della criminologia declinato nelle “coordinate del male”, va a sondare le cause scatenanti del grado zero di empatia, che esso sia per nascita o acquisito, nell’intendere l’origine dell’atto crudele e deviante come rottura di ogni valore scaturito dal terreno nutritivo dell’empatia e della capacità di provare rimorso, inteso dunque come la sua assoluta negazione. Prevenire una crudeltà che molto spesso uccide, ed altre volte provoca traumi indelebili sulla pelle di coloro che dallo “sguardo anempatico” son usciti apparentemente indenni, ma con cicatrici profonde nel dominio dell’animo, nel perdurare nella memoria di un male che li ha contaminati nelle certezze.

Pozzuoli, Ospedale Santa Maria delle Grazie: tra successi e innovazione

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Con tecnologie all’avanguardia

Anche quest’anno l’Ospedale Santa Maria delle Grazie di Pozzuoli torna alla ribalta internazionale con la Struttura Complessa di Chirurgia Generale, il Centro di Chirurgia Laparoscopica e la Robotica diretta dal Dr. Felice Pirozzi.

Durante il trentatreesimo Congresso Internazionale di Chirurgia dell’Apparato Digerente, organizzato dal Prof. Giorgio Palazzini, il Dr. Pirozzi, coadiuvato dalla sua equipe, dagli anestesisti guidati dal Dr. Francesco Diurno e dal personale tutto del Complesso Operatorio, ha eseguito tre complessi interventi chirurgici con la tecnica robotica utilizzando il sistema DaVinci XI.

Il sistema, dei più innovativi e all’avanguardia viene utilizzato in urologia, ginecologia, chirurgia generale, toracica, pediatrica e senologia. Il sistema DaVinci si compone in tre elementi: il carrello paziente, una console chirurgica e il carrello visione.

Al Congresso hanno partecipato medici appartenenti alle Scuole più prestigiose nel panorama chirurgico nazionale ed internazionale. Hanno assistito a tale evento 93000 professionisti, collegati in streaming via internet.

La partecipazione, per il quinto anno consecutivo, a questo prestigioso evento, rappresenta il riconoscimento all’alta professionalità raggiunta da tutta la squadra della Struttura Complessa di Chirurgia Generale, del Centro di Chirurgia Laparoscopica e della Robotica, del nosocomio di Pozzuoli dell’ASL Napoli 2 Nord.

Le interviste di VMagazine – Le moto da sogno di Davide Paradiso

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Giovenale, i no vax e la coerenza politica della Corte Costituzionale

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Il grande Giovenale (II secolo d. C.) ebbe a dire una frase che è valida per tutte le stagioni, frase cara a Jean-Jacques Rousseau e adottata dai rivoluzionari francesi: vitam impendere vero, una vita alla ricerca della verità.

In linea astratta dovrebbe essere una frase che dovrebbe essere evidenziata nelle aule di giustizia al posto del ben più esilarante La legge è uguale per tutti, ma tant’è.

Ti chiederai, caro lettore, cosa c’entri tale frase con la questione dei vaccini.

Presto detto.

Sappiamo tutti come sia andata la questione della legittimità dei vaccini alla Corte Costituzionale il 1° dicembre, laddove i ricorsi incidentali (ben 19) sono stati dichiarati inammissibili e la strada è segnata.

Sul punto ci sono state reazioni scomposte da parte di tanti da un lato e l’esaltazione dei vaccinisti dall’altra per la sconfitta del fronte opposto.

Perché, come diceva Philippe Daverio, agli italiani non interessa vincere, ma che perda l’altro.

In questo rinnovato vigore di dicotomia guelfi e ghibellini attuale, si devono svolgere alcune brevi considerazioni.

Intanto l’eterna illusione degli avvocati che, come guerrieri del nulla, hanno ancora quella visione onirica della Giustizia votata al bene del cittadino che cozza in maniera bizzarra con il pragmatismo ideologico di tanti magistrati che – al pari dei grandi giuristi accademici – verificano se una virgola è stata inserita nel posto giusto, tralasciando il quadro di insieme.

Ne consegue che si osservano più i formalismi, le eventuali legittimazioni attive a partecipare ad un dibattito nelle aule di giustizia (cioè il diritto a dire la propria in una certa faccenda introdotta da altri) e dichiarando inammissibile un atto per non entrare nel merito della questione.

Ed è quello che è accaduto alla Corte Costituzionale con una decisione ben prevedibile non dal punto di vista tecnico in considerazione che l’obbligo vaccinale è altamente anticostituzionale e i vaccini sono – di fatto – sperimentali sulla pelle dei cittadini, prevedibile, come sostenuto da tempo, dal punto di vista politico.

L’aspetto mortificante non è la delusione per il risultato scontato, quanto la presa d’atto che la Corte Costituzionale si è rivelata per quello che è: un organo politico e quindi non indipendente come invece auspicavano i padri costituenti e con buona pace di Calamandrei.

Ed è normale, perché su 15 giudici, 5 sono eletti dai magistrati, 5 dal Parlamento in seduta comune e 5 dal Presidente della Repubblica, come sancito dall’articolo 135 della Costituzione.

E da nessun avvocato che ne avrebbe ben diritto di esprimere la sua.

Quindi, come poteva la Corte Costituzionale, contraddire l’operato di chi li ha messi in tale organo?

Inverosimile e fantasioso.

Anche perché immaginate cosa sarebbe accaduto se fosse stata emessa la declaratoria di anticostituzionalità dei vaccini (e dire il vero ancora c’è un barlume di speranza al pari della Juventus di vincere la Coppia dei Campioni) con un intasamento delle aule di giustizia sia in sede civile sia penale che – in ultima analisi – sarebbe andata a vanificare la farraginosa riforma Cartabia (anche lei ex presidente della Corte Costituzionale ed ex Guardasigilli).

Mai fu più vero il detto umbro “tra cani non si mordono”. Figuriamoci nel caso in esame.

Da ciò ne consegue il fallimento di un certo modo di amministrare la Giustizia in nome del popolo e facendo risultare il tutto come drammaticamente folcloristico e facendo perdere fiducia nel cittadino nei confronti del sistema.

L’Associazione nazionale magistrati ha sempre combattuto affinché la politica non avesse il sopravvento sulla Giustizia e coltivando una autonomia di pensiero che è al pari di un giornalista di Repubblica o di Libero (dipende se si è guelfi o ghibellini), ma dimenticando che la Corte Costituzionale non è autonoma per nulla e lo ha dimostrato più volte.

Basti pensare anche al regime carcerario durissimo del 41 bis su cui l’Italia ha ricevuto un giusto “rimprovero” da parte della Commissione europea dei diritti dell’uomo e che non ha avuto altre soluzioni nonostante le indicazioni da parte dell’Europa svilendo il sentimento europeista che funziona a corrente alternata e solo quando fa comodo.

Gli italiani sono tutti o guelfi o ghibellini a seconda delle necessità e trovano la punta di diamante di tale modus vivendi in quello che diceva Giuseppe Prezzolini “la coerenza è la virtù degli imbecilli”.

In realtà, superando la frase di Giovenale, la Corte Costituzionale si è adeguata a un celebre aforisma di Giovanni Giolitti “Per i nemici le leggi si applicano, per gli amici si interpretano”.

Ed è definitivamente scomparsa la fiducia dei cittadini nel sistema Giustizia perché non si è voluta ricercare la verità.

“Boy in the box”, dopo 65 anni identificato il ragazzo nella scatola

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Le nuove tecnologie per l’esame del Dna hanno permesso di identificare la vittima di un omicidio irrisolto a Philadelphia

Joseph Augusto Zarelli. È questo il nome del “bambino nella scatola”. Dopo 65 anni, grazie all’evoluzione del test del Dna, la polizia di Philadelphia ha dato un nome alla piccola vittima trovata oltre mezzo secolo fa in un boschetto del quartiere Fox Chase della città degli Stati Uniti d’America.

Nel corso di una conferenza stampa la polizia ha ricordato come la tecnologia abbia aiutato a risolvere questo caso a distanza di tanto tempo, abbinata alle tecniche investigative classiche.

Gli investigatori hanno diffuso il nome del ragazzino, conosciuto come “boy in the box” nato nel 1953 e ritrovato con il corpo martoriato nel 1957, sperando ora di arrivare al suo assassino.

Il corpo del bimbo venne trovato in una scatola per culle prodotte da J. C. Penney, avvolti in una coperta, con il corpo nudo e gravemente contuso, pesava solo 30 libbre e aveva diverse piccole cicatrici sul corpo, secondo il National Center for Missing & Exploited Children. Era stato picchiato a morte, secondo la polizia.

La scena del crimine fu perlustrata da cima a fondo da 270 poliziotti appena assunti, che rinvennero un cappello da uomo blu di velluto, una sciarpa da bambino e un fazzoletto bianco da uomo con la lettera “G” nell’angolo, tutti oggetti che non portarono da nessuna parte.

In tutta la città vennero distribuiti 400mila manifesti con la foto del ragazzo.

Gli investigatori avevano già tentato di utilizzare il test del Dna per identificare il corpo del ragazzo, ma il campione era insufficiente. Uno specialista forense è stato in seguito in grado di utilizzare lo stesso campione di Dna per identificare i parenti del ragazzo.

Il capo della Omicidi, il capitano Jason Smith, ha affermato di avere “dei sospetti”, riconoscendo che vista la grande quantità di tempo trascorso che si tratta di un’indagine “tutta in salita”. Smith non ha fornito le identità dei genitori del bambino, dicendo che sono entrambi morti, ma indicando che i fratelli sono ancora in vita.

I resti del ragazzo sono stati sepolti in un cimitero locale con una lapide che recita “America’s Unknown Child”.