Mi accorgo che spesso i miei editoriali sono più letti quando parlo di trascendenza o spirito e un pò meno di analisi di attualità.
E accade che spesso parlo di trascendenza perché, se si va a vedere le scarne notizie che appaiono sui quotidiani anche online, le notizie stesse sono sempre uguali e, quindi, alla fine ci si annoia.
In più, per una tempesta che ho perennemente dentro, mi è più congeniale parlare di ciò che porta alla ricerca di elevazione dell’anima che si sostanzia nel voler risposte adeguate che non arrivano se non con la morte.
In questo due anni di articoli vi sarete accorti di un sostanziale turbamento che mi scuote come quasi tutti, ma con la sola differenza che io ho l’opportunità di scriverlo su questo bel magazine con la malevola provocazione di suscitare in voi la riflessione, per farvi star male penserete.
In realtà un editoriale, per come strutturata la professione giornalistica, è sempre collegato ad un commento morale o politico di un fatto posto a fondamento di un articolo, argomento che può essere il più disparato che va da Fedez a Malena alle elezioni politiche regionali.
Nel caso di oggi è la mia visita ai miei cari in un cimitero dell’alta Toscana mentre ritornavo dalla Liguria per lavoro.
Un fratello, mio padre, mia madre sono colà sepolti da troppi anni.
Persi tutti in mia giovane età e, potete immaginare, il mio percorso doloroso, ma invitto alla vera depressione pur avendo avuto – e ho tutt’ora – alcuni momenti di debacle umorale che riaffiora quando muore una persona a me cara.
Ne consegue che a tutti noi questa pesantezza della morte, per un verso o per un altro, ci accompagna per tutta l’esistenza.
Sigmund Freud affermava che “esistono due modi per essere felici in questa vita, uno è di diventare un idiota e l’altro è di esserlo”.
Ora, siccome ritengo che non tutti siano idioti salvo rare eccezioni, penso che pochi siano felici.
Se da una parte i grandi maestri Sufi dell’Islam affermavano che per avere una buona vita bisognava eliminare le cose superflue, dall’altra mi accorgo che l’intelletto umano mal digerisce il concetto di morte e si ha tutti paura perché si rimane incompiuti in eterno.
Quindi ci si confronta con la morte sempre e mentre osservavo i miei cari ho realizzato che si ha paura di essa perché si ha paura di essere chiusi in una cassa e seppelliti a volte sotto terra e a volte messi nei loculi e non si può fuggire.
Prigionieri in eterno e poi rimossi per fare spazio ad altri prigionieri.
Il concetto di tomba, quindi, diventa un totem devozionale di chi rimane in vita per portare due fiori o andare a confrontarsi con chi crediamo che ci veda e osservi da sotto quando in realtà lo fa dall’alto tra le nuvole.
Perché il problema è demonizzare la morte e i più non ci riescono salvo i credenti nel buddismo tibetano che credono sostanzialmente nella reincarnazione.
Beati loro.
Noi cristiani – che non abbiamo le 72 vergini che ci aspettano in Paradiso come nell’Islam – abbiamo, invece, forti remore perché ci domandiamo dove alloggeremo quando risorgeremo se il corpo non c’è più anche se è indubbio che il concetto di resurrezione è – dal punto di vista teologico se non ricordo male – squisitamente dello spirito (in realtà la resurrezione della carne è una dottrina escatologica della Chiesa Cattolica e avverrà con il Giudizio Universale, ndr).
Partendo, quindi, da questo assunto e della forza dello spirito ,si svilisce il concetto di morte e di seppellimento perché diventa solo un fatto brutalmente formale, ma pieno di dolore per chi rimane.
Questo perché se da una parte lo spirito non morirà in eterno, dall’altra lo stesso rimarrà nel cuore di chi è custode degli affetti del morto.
È la memoria della persona amata che sfocia in malinconia.
E in alcuni, che hanno perso un figlio, la malinconia si tramuta in un ergastolo del dolore.
Per ovviare a questa serie di paure ben motivate la cremazione diventa -paradossalmente – l’esorcizzazione della morte perché si diventa cenere su indicazione evangelica che polvere siamo e polvere torneremo (Genesi 3,19).
E poi accolte in casa quale sigillo di una presenza continua di un affetto che veglia su di noi.
E non si avrebbe più paura dell’oscurità e della terra che divora il corpo che va in decomposizione.
Perché anche questa è un’altra macabra paura di cui siamo ben amaramente coscienti.
Con la cremazione si torna liberi nel respiro di Dio.
Ma d’altronde non abbiamo la stessa elevazione spirituale di papa Ratzinger che ebbe a dire “Non mi preparo per una fine, ma per un incontro” ma più sommessamente pensiamo che non è giusto morire, soprattutto se giovani anche in considerazione che si ha paura che di là non ci sia nulla, ma solo la terra che opprime il nostro corpo.
Meglio, quindi, essere polvere.